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004 ..:: 22.02.2016 :: 18:30

..:: A sinistra la fotografia de «Il Balcone» di Elio Ferrara; a destra, la firma del pittore.

TRINITAPOLI ..:: Se andassimo a cercare la spiegazione del termine “balcone” (ammesso che davvero nessuno sappia di cosa si sta parlando) avremmo detto ben poco, anche perché nell’immaginario collettivo, e nella comune esperienza, esso si sintetizzerebbe in un raffigurazione schematica, pur nella diversità delle varie realizzazioni che l’architettura moderna oggi mette in opera e mostra al nostro sguardo. Nulla più che ringhiere di varia foggia, muretti in cemento, cordoli esteticamente poco attraenti, tutto comunque lungi dall’uso che di quel balcone farà il locatore o il proprietario. No signori, siamo fuori strada, a Napoli il balcone è un’altra cosa! Soprattutto se andiamo a considerare la realtà che i nostri occhi possono osservare nei rioni popolari e se rammentiamo ciò che la letteratura, il teatro, il cinema ci hanno consegnato come emblema tipico del balcone napoletano.
Chi non ricorda il testo del grande Eduardo De Filippo “Questi fantasmi”, per esempio, o il monologo del caffè sul balcone dello stesso autore?
Ecco allora che quel balcone sul vicolo, lì dove si può godere del sole a dispetto dei bassi sottostanti, diviene un vero e proprio “paradiso” riservato agli abitanti del piano che lo personalizzano, arricchendolo, è proprio il caso di dirlo, con oggetti di uso quotidiano. Così esso diviene un luogo in cui è piacevole stare, ove si può dialogare con il dirimpettaio (dato lo spazio ristretto intercorrente); luogo inoltre deputato agli sfoghi, alle chiacchiere, alle facezie, ai pettegolezzi e chi più ne ha più ne metta, tutte comunque, caratteristiche peculiari di una Napoli ciarliera, estroversa, disinvolta.
Luogo per lasciarsi incantare perfino da una luna che spudoratamente s’insinua, per il volgere di pochi minuti, nella strettoia del vicolo e lancia raggi ammiccanti su chi gode della frescura estiva, lì dove magari una figura femminile è lì per udire a sera, ma di soppiatto, la voce di una chitarra suonare qualcosa per lei.
Elio Ferrara, pittore già aduso a cogliere gli aspetti di una Napoli che non c’è più, anche se viva nel suo cuore e dei tanti che guardano e sognano ad occhi aperti, non disdegna di soffermarsi sui balconi della sua città. Tocchi sapienti, oseremmo dire “guizzanti” di colore i suoi, per disegnare questo o quel particolare: una semplice ringhiera che imprigiona un giardino casereccio e infissi aperti, come se da un momento all’altro dovesse affacciarsi qualcuno. Chi? Lei, naturalmente, col cuore speranzoso in attesa non si sa di chi o cosa, in una cornice di serti appesi alle pareti (pomodorini, cipolle, ecc.), sotto una tenda di canne tirata su per frenare di giorno l’irruenza del sole. In alto, sullo stipite, qualche passero o colombo posa alquanto la sua stanchezza, prima di riprendere il volo. Quella che non manca sui balconi napoletani è la gabbietta con un canarino, altrimenti come farebbero i vicoli ad illuminarsi di allegri trilli?
Non c’è altra voce in questo scenario. È notorio che la pittura parla agli occhi ed al cuore, eppure chissà… dal sottostante “basso” pare di udire l’eco di una melodia tipica della Napoli che fu (giusto per dare contemporaneità all’opera del Ferrara): «…Serenata arraggiate, ‘ntussecata d’ammore… ca me fa ‘mpazzì…». Mentre si osserva quest’incanto, e l’occhio si bea di tanta bellezza per noi alquanto inusuale, si attende che il prodigio di un delicato affaccio coroni degnamente l’opera, dia un compimento lieve e vada a legittimare la soddisfazione di un artista come il Ferrara che ama svisceratamente la sua Napoli.
 

Matteo de Musso
mdemusso@alice.it

 

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