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Eraclio: il Colosso di Barletta.

023 ..:: 28.10.2016 :: 19:00

 

 

..:: Nella foto, il Colosso di Barletta, Eraclio.

 


Trinitapoli ..:: Arè per il popolino, Eraclio per tanti! È lui, il “colosso” collocato a due passi dalla Basilica del S. Sepolcro, emblema della città di Barletta, ammirato dai forestieri che vi passano davanti. Ma quale personaggio raffigu-ra? Sciogliere questo rebus diviene impresa ardua, ci sono infatti dei dati storici inequivocabili, ma c’è anche la fantasia a farsi sentire, con il proliferare di storie e storielle che qui e là si rimandano ancora a voce. È comunque un bronzo (alto m. 5,30) che, come qualcuno narrava, fu fatto fondere dall’imperatore d’Oriente Eraclio nella prima metà del VII sec. d.C. per donarlo al Santuario di S. Michele Arcangelo sul Monte Garga-no. Sciocchezze! Impostazioni storiche serie ci dicono tutt’altro: il “colosso” raffigura l’imperatore Teodosio d’Oriente (IV sec.), fuso in un periodo in cui Costantinopoli era la patria di altre gigantesche opere bronzee. A volerla non fu dunque Eraclio, anche perché al suo tempo le finanze dello stato erano più che depresse, e poi v’era una generale crisi nel campo delle arti. La scultura, collocata nella capitale dell’impero d’Oriente, diversi secoli dopo la morte di Teodosio, fu ribattezzata con il nome di Eraclio a motivo delle gesta da lui compiute e mantenne quel nome per secoli, finché caduta Costantinopoli in mano all’Occidente, la città non fu saccheggiata. I veneziani, per esempio, si distinsero in quell’azione, basterà ricordare le porte bronzee ed i cavalli della Basilica di S. Marco! La tolsero dal piedistallo per trasportarla a Venezia via mare, ma un nau-fragio mandò all’aria i loro progetti ed essi dovettero abbandonarla sul litorale adriatico, nei pressi di Barletta, lì dove i flutti l’avevano sbattuta, accanto alla carcassa della nave che la trasportava.
Nel XIII sec. il “colosso” si trovava ancora abbandonato nei pressi dell’antica Dogana o dell’antica Rocca, al-lora ufficio governativo. Nel 1309 Carlo II d’Angiò ricevette un’istanza dei PP. predicatori di Manfredonia, che volevano disporre dell’ “imaginem de metallo existentem in Dohana Baruli” per realizzarne campane per la loro nuova chiesa, e diede il proprio assenso, così esso fu privato delle gambe e delle mani; per fortuna, però, i barlettani insorsero subito e riuscirono ad impedire ulteriori scempi. Nel 1491, rifatte nuove gambe e mani (a cura di Fabio Albano), l’opera attribuita allo scultore greco Poliforo, fu innalzata nel luogo in cui ora si trova.
Fin qui la storia ed i documenti. Ora facciamo un po’ di spazio anche alla leggenda. I vecchi contadini del luogo raccontavano tutt’altre cose attorno ad Arè a figli e nipoti nelle lunghe serate d’inverno, quando uniti attorno al fuoco, s’ingannava il tempo e si arricchiva la fantasia dei piccoli. Essi dicevano che quel “colosso” era stato innalzato per rendere onore ad uno dei contadini del luogo, uno come loro, che salvò il paese da un grande pericolo. Egli infatti era grande e grosso, un vero omaccione, e saputo dell’avvicinarsi d’un esercito nemico, deciso ad avanzare su Barletta per una conquista non certo indolore per città e cittadini, andò nei pressi del ponte che scavalca l’Ofanto, si sedette su una grossa pietra ed attese.
Allorché vide avvicinarsi la formazione nemica, comandante in testa, proruppe in un pianto dirotto. Richiesto da questi di fornire una spiegazione, trattenendo a stento le lacrime, disse: «Piango perché domani non po-trò difendere la mia città: infatti mi hanno cacciato via perché sono il più piccolo tra loro»!
Quel condottiero, visto e considerato che aveva di fronte un omone dalla considerevole altezza di cinque metri e passa, decise di alzare i tacchi e fare dietro front. La conclusione? I racconti di quei vecchi si chiude-vano sempre con queste parole: «… E scappano ancora».
Noi invece non possiamo che aggiungere: beata ingenuità!
 

Matteo de Musso
mdemusso@alice.it

 


 

 

 

 

 

 

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