007 ..:: 01.03.2016 :: 10:30
..:: La Portatrice Carnica Maria Plozner
Mentil, Medaglia d'oro al Valor Militare..
TRINITAPOLI ..:: «Geis, su schénez di fémines consumades dal lavor,
cjamaz di muniziòns si piérdin per trois e pai bosc das
nostres monz; e su fin dulà che i paesàns, i familiars, i
soldazài tegnin bot al nemi. As puàrtin ches fémines, in
chéi lucs di desolazion un frucim di pas, un cjanton di
fogolar…».
(Gerle, su schiene di donne consunte dal lavoro, cariche di
munizioni si perdono nei sentieri e nei boschi delle nostre
montagne; e su fino al punto in cui i paesani, i loro
familiari, i soldati, tengono testa al nemico. Portano
quelle donne, in quei luoghi desolati un briciolo di pace,
un angolo di focolare…) [1] .
Questi versi in dialetto carnico (regione confinante con
l’Austria) ricordano la fatica di donne valorose rimaste nei
paesi mentre i loro uomini erano al fronte per la Grande
Guerra; le trincee, del resto, distavano pochi km dalle
case, ed a sera, quando il crepitare delle armi cessava,
accoglievano i feriti che scendevano in paese e verificavano
lo scempio compiuto dai proiettili sui loro corpi. Fu quindi
naturale per loro esser coinvolte nella guerra: dal 1915 al
1917 divennero il contatto tra i soldati italiani ed i paesi
sottostanti; “operaie militari”, questa la qualifica loro
attribuita in seno all’Esercito Italiano che, con una paga
di 50 centesimi a viaggio, le utilizzò a qualsiasi ora del
giorno e della notte. Le “portatrici”, questo il loro
appellativo ufficiale, furono oltre mille, di età compresa
tra i 16 ed 45, ma non mancarono anche bambine di 10 anni, e
costituirono nei primi mesi guerra un vero e proprio corpo
militare ausiliario. Con un bracciale rosso numerato per il
riconoscimento, partivano da Timau, Cercivento, Arta,
Paluzza, Ovaro, ecc., ricevevano nel fondovalle il materiale
(munizioni, cartucce, viveri, medicinali, non meno di 30 -
40 kg alla volta), e si avviavano a gruppi di 15 - 20 con le
gerle sulle spalle verso l’Alto But, il Monte Coglians, la
Cresta Collinetta, il Pal Piccolo e Grande, il Pizzo di
Timau.
Giunte a destinazione, voci delle famiglie che mandavano ai
soldati anche biancheria pulita, un buon pane ed un pezzo di
formaggio (“Te lo manda to mari”, te lo manda tua
madre, dicevano), scaricavano la gerla e dopo un breve pausa
tornavano indietro riportando giù anche feriti e morti da
seppellire nel cimitero di Timau. Una volta rientrate a
casa, poi, accudivano i propri vecchi, i bambini e la
stalla, pronte all’alba per un nuovo viaggio. Molte belle
parole furono usate anni dopo per salutarle come “fulgido
esempio di abnegazione e patriottismo”. Con Decreto del
Presidente della Repubblica Pertini nel 1979 venne
riconosciuto alle “portatrici” il titolo di “Cavaliere di
Vittorio Veneto” al pari dei soldati che avevano combattuto
nelle trincee e sul Piave, ed a Timau venne innalzato un
monumento a Maria Plozner Mentil, simbolo di quelle
eroiche donne. Lei, poco più che trentenne, donna di
eccezionale fibra, “anima” del suo gruppo, sposa di un
combattente del Carso, saliva alle trincee e, benché già
madre di tre figli, il quarto di sei mesi lo stava ancora
allattando, incoraggiava le compagne: «Anin, senò chei
biadaz ai murin encje di fan» (Andiamo, altrimenti quei
poveretti muoiono anche di fame)! Il 15 febbraio 1916, però,
mentre riprendeva fiato dopo aver scaricato la sua gerla, un
cecchino austriaco la colpì; trasportata nell’ospedale da
campo di Paluzza, spirò nella notte assistita da uno zio.
Ebbe solenni funerali e le sue spoglie riposano oggi nel
Tempio Ossario di Timau, accanto a quelle di altri 1.763
soldati caduti.
Nel 1997 il Presidente della Repubblica, “motu proprio”, le
conferì la Medaglia d’oro al Valor Militare “alla memoria”,
riconoscendola “eroina” e ideale rappresentante di tutte le
“portatrici carsiche”; donne granitiche che, se a qualcuno
dovesse proprio dar fastidio il termine “eroine”,
meriterebbero di essere conosciute meglio ed additate oggi
come esempio per tutte le donne d’Italia e forse anche del
mondo. Donne che ogni giorno, in casa e fuori, operarono in
silenzio con abnegazione e coraggio, senza dimenticarsi del
proprio uomo e dei figli.
Matteo de Musso
mdemusso@alice.it
Note: [1] C. Vezzi, da “Le
portatrici carniche” – Amm.ne Comunale di Paluzza,
1997. |
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