030 ..:: 21.03.2018
::: Particolare del Cimitero di Vajont.
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Vajont ..:: Fortogna è la piccola frazione,
posta fra Ponte nelle Alpi e Longarone, che ospita i resti
delle vittime della tragedia del Vajont. All’ingresso, nel
“portale” (che strutturalmente dà l’idea della diga), v’è
una mostra permanente di foto ed oggetti vari recuperati per
dare al visitatore una panoramica del disastro e per
raccontare una storia che ebbe inizio il 9 ottobre 1963,
alle ore 22:30. Fu allora che il Monte Toc cedette,
scatenando un’onda che travolse Longarone ed i 2000 suoi
abitanti. Quella è la stessa, medesima storia che oggi
lapidi distese in un prato verde descrivono in religioso
silenzio.
Il sito su cui insiste il cimitero, un tempo campo di
granturco, fu individuato a 4 km da Longarone già dalle
prime ore dopo la tragedia, quando si rese necessario
trovare un'area adeguata che permettesse una catalogazione
dei cadaveri ritrovati. Oggi su di esso è collocato un
trittico scultoreo in marmo bianco dello scultore bellunese
Franco Fiabane. Una prima statua ricorda gli
emigranti, rientrati in patria per la tragedia (un uomo con
la valigia sorregge con le sue mani forti una donna
esanime); una seconda ricorda i soccorritori (simbolo
del legame che unisce i superstiti con quanti diedero loro
sostegno); l'ultima è dedicata ai 31 bambini mai nati
(mamme innalzano idealmente i loro piccoli verso il Cielo,
verso quella luce che non hanno potuto mai vedere).
Una sosta a quel Cimitero è più che dovuta: le case infatti
si ricostruiscono, la vita riparte e pian piano anche il
dolore della tragedia sbiadisce nella memoria, ma non si può
dimenticare che ben 1910 vite da quella notte sono state
strappate.
I fatti che portarono all'immane tragedia del Vajont
risalgono ai primi anni del XX sec., allorché si cercavano
le valli migliori per destinarle, dopo averci costruito un
bacino artificiale, alla produzione di energia elettrica.
Lungo il corso del fiume Piave e dei suoi affluenti vennero
aperti, nell'arco del trentennio 1930/1960, ben sei bacini
artificiali, dei quali quello del Vajont avrebbe dovuto
essere la banca d'acqua per assicurare la funzionalità degli
impianti. Ma nel 1960 vi fu una prima frana ed i timori che
fino a quel momento gli abitanti del luogo avevano nutrito
esplosero improvvisamente; le popolazioni di Erto e Casso,
frazioni più vicine alla diga, avvertirono che qualcosa
stava per accadere: il Monte Toc, trapanato da sonde,
frustato da spostamenti d'aria causati dallo scoppio delle
mine sul versante opposto per costruire la nuova strada,
sollecitato dall'acqua del lago che saliva e scendeva nel
bacino artificiale ai suoi piedi stava muovendosi. La gente
aveva paura: sentiva le continue scosse sismiche, vedeva le
case riempirsi di fessure e crepe e gli animali selvatici
fuggire da quel versante del monte. Il lago stesso
presentava macchie giallastre ai piedi della "parete
maledetta". Le preoccupazioni erano soprattutto di ordine
geologico: lo dicevano gli abitanti della valle per antico
sapere e lo scrivevano alcuni giornali, ma lo prevedevano
soprattutto i tecnici altamente qualificati che arrivarono a
quantificare la frana del 1960 in 200 milioni di metri cubi,
sbagliando di "soli" 60 milioni di metri cubi in difetto.
Mentre la gente voleva sapere la verità sulla sicurezza del
loro valle, la ditta appaltatrice, voleva portare al
collaudo il serbatoio del Vajont, preoccupata di condurre in
porto il suo enorme investimento nella realizzazione di
quell'opera, compiva ripetuti sopralluoghi, soprattutto
presso quella enorme frattura che segnava vistosamente il
lato sinistro della vallata. Ovviamente taceva la verità sia
con gli abitanti che con il Ministero a Roma; riteneva
inutile diffondere notizie preoccupanti prima del tempo. Ad
un certo punto, per cercare una risposta tranquillizzante e
convincente incaricò il prof. Augusto Ghetti, direttore
dell'Istituto Costruzioni idrauliche dell'Università di
Padova, di effettuare delle prove su un modello per
esaminare gli effetti di un'eventuale frana nel lago
artificiale del Vajont. Le prove furono effettuate presso il
Centro Modelli Idraulici di Nove di Vittorio Veneto. Lì si
cercò di valutare l'azione dinamica sulla diga, risultante
dall'onda provocata da una ipotetica frana e gli effetti
dell'onda stessa sul serbatoio e sulle località vicine. Nel
modello, riempito a differenti livelli d'acqua, vennero
fatte cadere, con diverse modalità, varie quantità di
materiale. Vennero rilevati i tempi di caduta,
l'innalzamento del livello dell'acqua e la sua quantità che
superava la diga.
La relazione Ghetti del 3 luglio 1962, dopo 22 prove
effettuate, concluse che non vi era pericolo per i paesi di
Erto e Casso, tanto meno per Longarone, e considerò i 700
metri s.l.m. la quota di sicurezza, anche in vista del più
catastrofico degli eventi franosi. Chi cercava una risposta
tranquillizzante, l'aveva trovata, ma non era la risposta
che chiedevano gli abitanti di Erto, Casso e Longarone, che
alla fine finirono col pagare il prezzo più alto di tante
sviste e troppi errori.
Una stele posta all’esterno di quel cimitero ammonisce:
"PRIMA IL FRAGORE DELL’ONDA, POI IL SILENZIO DELLA MORTE.
MAI L’OBLIO"!
Matteo de Musso
mdemusso@alice.it
::: Trittico scultoreo in marmo bianco dello scultore
bellunese Franco Fiabane.
Note: Matteo de Musso, Giornalista e scrittore.
Abita in Via Cavour, 96
76015 TRINITAPOLI BT
mdemusso@alice.it
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