020 ..:: 17.02.2017 :: 18:30
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SOVERATO :: Le altre confessioni religiose sono riconosciute
dall’art. 8 Cost., che al primo comma stabilisce che «tutte
le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla
legge» (laicità dello Stato, libertà religiosa).
L’art. 8 Cost. si contrappone all’art. 1 dello Statuto
Albertino che proclamava la religione cattolica come
religione ufficiale (Stato confessionale).
Ai sensi dei commi 2 e 3 dell’art. 8 Cost., «Le confessioni
religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di
organizzarsi secondo i propri statuti in quanto non
contrastino con l’ordinamento giuridico italiano.
I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla
base di intese con le relative rappresentanze».
Dal dettato di tali disposizioni si evincono, pertanto, i
seguenti ulteriori principi per le confessioni acattoliche:
- autonomia;
- indipendenza;
- autodeterminazione;
- autorganizzazione.
Mentre tali principi attengono alla sfera interna
dell’attività dei culti acattolici, la loro attività esterna
e i rapporti con lo Stato, ai sensi del terzo comma
dell’art. 8 Cost., sono regolati da intese.
Sono note le condizioni politiche che, all’inizio degli anni
ottanta, hanno portato alla conclusione della lunga vicenda
della revisione del concordato del 1929, quando i
rappresentanti dello Stato italiano e della Santa sede hanno
ritenuto di non condividere la tesi di chi da anni sosteneva
come più opportuna la soluzione del superamento del regime
concordatario nell’Italia democratica e pluralista. La
prospettiva del diritto comune è stata abbandonata anche da
parte delle confessioni religiose di minoranza: questo
mutamento di prospettiva, dovuto all’importanza che, per le
varie confessioni religiose, ha assunto l’obiettivo di
ottenere l’abrogazione della legislazione sui culti ammessi
del 1929-1930, ha esercitato notevole influenza nel rendere
più debole la posizione di quanti, anche all’interno del
mondo cattolico, continuano a ritenere che i concordati, e
le intese con contenuti analoghi a quelli dei concordati,
essendo accordi tra due ordinamenti che hanno natura e
finalità diverse e spesso contrastanti, non sono strumenti
idonei a soddisfare insieme le imprescindibili esigenze
dello Stato italiano e delle Chiese.
L’aggiornamento dei Patti lateranensi del 1929 (una
restaurazione camuffata da revisione) non ha rappresentato
un risultato adeguato a soddisfare le esigenze che
caratterizzano una società democratica: l’eguaglianza dei
cittadini e dei gruppi sociali in materia religiosa,
l’imparzialità dello Stato in tale materia e il principio di
laicità, che opera come fattore primario del modello di
democrazia pluralista del nostro sistema giuridico.
Negli ultimi decenni si sono verificate le condizioni
favorevoli per l’instaurarsi di sempre più frequenti e
intensi rapporti tra le autorità pubbliche e i
rappresentanti degli interessi religiosi. Sull’affermarsi di
questa pratica del confronto e del dialogo ha fortemente
influito il proposito di agire nella prospettiva di un
miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini, in
ambiti essenziali quali sono quelli dell’educazione e della
formazione, della lotta per il superamento delle
discriminazioni e dell’emarginazione sociale, della parità
dei sessi, della sanità. Queste tendenze e il perseguimento
di questi obiettivi pongono problemi di non facile soluzione
per chi si proponga di favorire la costruzione di una
società e l’organizzazione di istituzioni fondate sul
principio di laicità.
«Tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere
davanti alla legge».
Chiaro, netto, inequivocabile: è la fine dell’era dello
Stato confessionale, il tramonto della supremazia assoluta
della cultura e del pensiero cattolico. Ha inizio la
‘rivoluzione’ democratica dalle ceneri del totalitarismo
fascista. Con queste parole infatti l’articolo 8 della
Costituzione italiana pone le basi per la costruzione di uno
Stato laico, pluralista e garantista; sottolineando e
fortificando, anche sotto il profilo religioso, il valore
supremo della libertà.
Breve excursus storico.
Il nascente Stato italiano, con il progredire della civiltà
a cui si accompagna il lento e affannoso affermarsi dei
diritti e delle libertà.
La distinzione è chiara: da una parte c’è la Chiesa di Roma,
depositaria di ogni verità e unica vera voce confessionale
degli italiani e dall’altra i ‘culti ammessi’, cioè solo
tollerati, e quindi non paragonabili ad essa né sul piano
civile né su quello giuridico. Un importante problematica da
affrontare fu la cosiddetta «questione romana», riguardante
il potere temporale dei papi su ciò che rimaneva dello Stato
pontificio. Lo Stato italiano cercò di risolvere i difficili
rapporti con il pontificato romano per mezzo della ‘legge
delle guarentigie’ del 13 maggio 1871, legge che determinava
la condizione giuridica del Pontefice e della Santa sede a
seguito dell’ammissione di Roma e del Lazio al Regno. In
virtù di essa, pur dovendosi considerare estinto per
‘debellatio’ lo Stato pontificio, furono tuttavia conservate
al Papa le ‘prerogative personali dei sovrani’. Il
malcontento della Chiesa, depredata di patrimoni, diritti e
territori, si acuirono e i suoi rapporti con lo Stato
italiano rimasero interrotti fino all’11 febbraio del 1929,
data in cui il governo fascista e la Chiesa firmarono i
‘Patti Lateranensi’.
I Patti, vera e propria ‘alleanza’ tra il regime di
Mussolini e il papato, diedero una nuova e completa
ristrutturazione della posizione giuridica di quest’ultimo
all’interno del panorama giuridico italiano. Il Trattato
infatti istituì lo Stato della Città del Vaticano, riconobbe
la religione cattolica come unica religione del Regno e
attribuì alla persona del Papa le prerogative di un sovrano.
Inoltre, il Concordato dichiarò Roma ‘città sacra’, stabilì
che al matrimonio celebrato in chiesa era attribuito anche
valore civile e proclamò che «fondamento e coronamento»
dell’istruzione fosse la dottrina cattolica. Una presa di
posizione nettamente confessionale e che non lasciò spazio,
come avvenne anche in campo civile e politico, a idee di
pluralismo e libertà. Furono notevoli le difficoltà per le
confessioni religiose di minoranza, duramente represse
perché ‘pericolose’ per l’unità spirituale del popolo. Ad
esempio fu ritenuta illegittima la propaganda svolta dai
cristiani non cattolici e a questo riguardo è utile citare
una sentenza del 30 aprile 1936 della Corte di appello di
Roma che limita esplicitamente la libertà religiosa
all’interno di stretti parametri. Distinguendo in maniera
netta i concetti di ‘libertà di discussione’ da ‘libertà di
propaganda’, la sentenza vieta la diffusione delle dottrine
dei culti ammessi qualora queste «eccedano dalla propria
sfera d’azione [e] vengano a costituire causa di gravi
disordini». La forte limitazione della libertà religiosa dei
facenti parte i ‘culti ammessi’ si concretizzò ulteriormente
sul piano giuridico anche grazie all’articolo 1 della legge
del 24 giugno del 1929. Tale legge disciplinava le
prerogative date al governo in merito al giudizio sui
principi delle confessioni religiose di minoranza sotto il
profilo della conformità all’ordine pubblico.
Statuto Albertino e ordinamento giuridico fascista: due
realtà che accolgono in sé il principio dello ‘stato
confessionale’ e che legittimano la preminenza di una
posizione religiosa rispetto alle altre. Due modi di
intendere la ‘libertà’ comunque coerenti: uno, quello
fascista, in quanto ai principi (antidemocratici) e l’altro,
quello ottocentesco, in quanto stava appena uscendo da
un’era (millenaria) di potere temporale e territoriale del
papato.
Principî costituzionali.
Con l’avvento della Costituzione e dello ‘stato di diritto’
la musica cambia, almeno nella forma. Prendono corpo tutele,
garanzie e diritti dichiarati inviolabili che si ergono a
scheletro normativo della nostra vita.
L’articolo 2, in primis, riaffermando con forza i diritti
del singolo cittadino, stabilisce la posizione di supremazia
del libero arbitrio in campo morale e culturale, del valore
dell’individuo e della sua capacità di autodeterminarsi. Nel
contempo, però, attribuisce fondamentale importanza anche
alla vita collettiva e alla libertà di associazione come
strumento principe di realizzazione di questa
autodeterminazione. In chiave di libertà religiosa, quindi,
il principio costituzionale ex art. 2 funge da bandiera
giuridica del desiderio di non interferenza da parte dello
Stato all’interno di ogni coscienza individuale. Libertà
individuale e libertà di associazione si traducono, in
quest’ottica, nella libertà di credenza e nel diritto di
vedersi riconosciuta in campo civile la propria appartenenza
ad una confessione religiosa: una concezione formale della
libertà, germogliata direttamente dalle fresche radici
liberal-democratiche che la Nazione stava lentamente
mettendo.
A questo riguardo, l’articolo 3, 2° comma, si propone, in
fase programmatica, di rimuovere gli ostacoli che si pongono
sul cammino di questo effettivo riconoscimento, seppure
l’articolo non menzioni in termini espliciti alcunché
rispetto al problema da noi trattato. Ciononostante pare
riduttivo non considerare l’aspetto ‘libertà religiosa’
degno di rientrare a far parte degli obiettivi delle larghe
maglie di questa disposizione. Eguaglianza sostanziale,
quindi, oltre che formale, anche in campo religioso.
‘Traducendo’ in termini di diritto ecclesiastico, ciò
significa scardinare le prerogative delle chiese storiche,
innanzitutto di quella cattolica, e favorire la
parificazione giuridica delle diverse culture e dei ‘credo’
presenti nella società civile. È il seme del pluralismo
sociale e della rivoluzione culturale che ci attende. Con
riferimento ai valori generali (e non strettamente legati
alla ‘libertà religiosa’) dell’articolo 3, è utile qui
riportare una celebre frase, risalente al 1955,
dell’illustre giurista fiorentino Piero Calamandrei che,
rivolgendosi alla gioventù milanese, disse: «Nella nostra
Costituzione c’è un articolo che è il più importante, il più
importante di tutta la Costituzione, il più impegnativo,
impegnativo per noi che siamo al declinare, ma soprattutto
per voi giovani che avete l’avvenire davanti a voi. Dice
così: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di
ordine economico e sociale , che, limitando di fatto la
libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di
tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e
sociale del paese»… Soltanto quando questo sarà raggiunto,
si potrà veramente dire che la formula contenuta
nell’articolo 1: «L’Italia è una Repubblica democratica
fondata sul lavoro», questa formula risponderà alla realtà…
[fino a quel momento] la nostra Repubblica… non si potrà
chiamare democratica, perché una democrazia in cui non ci
sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una
eguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale».
Gli articoli 7 e 8 si occupano in maniera più specifica del
campo religioso. Il primo è costituito di tre affermazioni:
stabilisce l’indipendenza e la sovranità reciproca della
Chiesa cattolica e dello Stato italiano, ciascuno nel suo
ordine; dichiara che i rapporti tra queste due distinte
realtà sono regolati dai Patti Lateranensi del 1929; e
afferma la non necessaria revisione costituzionale delle
modificazioni di tali Patti.
La prima di queste tre affermazioni, di valore
indiscutibilmente democratico, riluce dell’illuminazione
riflessa dalle due illustri precedenti di Cavour e Giolitti:
il famoso aforisma «libera Chiesa in libero Stato» del conte
Camillo Benso di Cavour e l’altrettanto nota metafora
geometrica di Giolitti che paragonava Chiesa e Stato a «due
parallele che non si incontrano mai». La seconda e la terza
affermazione hanno invece generato scontri politici di ampia
portata.
L’articolo 8, momento centrale per quanto riguarda il tema
qui trattato, dichiara l’uguale libertà di tutte le
confessioni religiose dinanzi alla legge. Tutte le
religioni, dunque, sono secondo questo principio libere e di
pari dignità, a meno che non contrastino con l’ordinamento
giuridico italiano
Articoli 19 e 20.
Il primo sancisce il diritto di tutti, italiani, stranieri e
apolidi, di professare liberamente la propria fede
religiosa. Una disposizione che mette in luce la volontà del
Costituente di fondare una visione molto aperta e liberale
in materia di libertà religiosa. Il secondo, quasi a
completare la disposizione del precedente, garantisce ogni
forma di associazione e di istituzione religiosa da
vessazioni legislative e fiscali. Questa disciplina, diviene
basilare per la democraticità dell’intero sistema,
garantendo ogni confessione dalla possibile interferenza
statale nella limitazione sostanziale ed occulta dei propri
diritti.
Anche se neppure all’interno della Carta costituzionale si è
potuto realizzare una vera eguaglianza tra le confessioni,
pregevoli passi avanti rispetto alle precedenti esperienze
storiche sono stati fatti. Esistono infatti principi,
garanzie e tutele che prima venivano ignorate. Adesso il
problema è individuare i soggetti che ne potranno godere.
Parte la caccia al vero significato dell’articolo 3, 2°
comma.
Il problema dell’individuazione di una definizione di
‘confessione religiosa’, rispetto ai principi costituzionali
finora trattati, è stato affrontato e sviscerato ampiamente
nel corso del cinquantennio repubblicano che ci siamo
lasciati alle spalle. Le libertà ‘in negativo’ riconosciute
nella Carta costituzionale non bastano da sole a risolvere i
problemi dettati da una sempre più marcata convivenza
multireligiosa. Le libertà ‘in positivo’, d’altra parte, non
hanno da sole una portata adeguata al problema. Per dirla
con Carlo Cardia, eminente ecclesiasticista, «si determina
così, un mutamento qualificato del pluralismo garantito
dalla Costituzione che non concerne solo la libertà di
scelte individuali, ma anche il diritto all’esistenza,
all’organizzazione e alla funzionalità delle varie
istituzioni». Si rende necessario quindi definire con
criteri generali i parametri entro cui alcune formazioni
sociali possano essere chiamate ‘confessioni religiose’.
Dottrina e giurisprudenza hanno concorso all’elaborazione
dei criteri per tale definizione, senza a tutt’oggi aver
trovato una soluzione definitiva.
Criterî dottrinali e giurisprudenziali.
Nella formulazione dell’articolo 8 il Costituente prende in
esame le ‘confessioni religiose’ disciplinandole come
fossero entità cristallizzate nel tempo e nella società.
Realtà già esistenti, dunque, e quindi ben determinate.
L’idea di fondo dell’Assemblea, nel trattare la materia
religiosa sembra quasi abbracciare quel retaggio
giuridico-culturale proveniente dal Codice napoleonico del
1804 che non considera la società, e quindi il sentimento
religioso, come un corpo ‘vivo’ e in evoluzione. Invero la
società è in continuo movimento (la Costituzione stessa
mostra di prenderne atto in molte altre disposizioni) e la
storia lo ha confermato, anche dal punto di vista delle
organizzazioni religiose. Nel delineare i principi base di
libertà in materia religiosa non è stato posto quindi il
problema di un metodo universale di qualificazione delle
confessioni.
Quella di ‘confessioni’ è un nomen iuris di nuovo conio
introdotto dal Costituente e non presente nel lessico del
legislatore italiano che fino ad allora si era avvalso del
termine ‘culti’. Termine, quest’ultimo, dice l’autorevole
Colaianni, che presuppone però l’esistenza di una divinità
verso cui esso è rivolto. Cosa che non ricorre in modo
uguale in tutte le religioni.
La regolamentazione dei rapporti tra Stato e confessioni
religiose diverse dalla cattolica è attuata mediante
stipulazioni di intese che sembrano essere funzionali ad una
diversificazione di trattamento giuridico delle stesse.
Tuttavia, il fatto che le confessioni abbiano differenti
regimi giuridici non contraddice ipso facto il principio
espresso dal primo comma dell’articolo 8, poiché la ragion
d’essere delle intese risiede nell’intessere con lo Stato
rapporti diretti a migliorare le condizioni dell’esistenza e
dell’operare delle diverse confessioni. Sembra quindi il
modo più idoneo a favorire la realizzazione di una
sostanziale uguaglianza e libertà.
Per connotare le formazioni sociali come ‘confessionali’
sono state storicamente individuate due diverse concezioni
che sono, secondo l’analisi di Nicola Colaianni, quella
sociologica e quella teleologica. La prima vede il problema
dal punto di vista dei bisogni e delle aspirazione religiose
dei cittadini. Mentre la seconda evidenzia lo ‘scopo’
religioso e i suoi caratteri.
La concezione sociologica prende in esame tre elementi per
individuare le confessioni religiose. Il primo elemento è
quello del rito: la presenza di un rito, di un momento
esteriore di caratterizzazione di un’organizzazione o di un
movimento, secondo quest’idea, può essere il fattore
discriminante tra una formazione sociale a carattere
religioso e una di impostazione diversa. Focalizza
l’attenzione sull’idea di rendere le confessioni ‘realtà
sociali afferrabili’ e quindi facilmente identificabili.
L’esistenza di un complesso di riti, e quindi di un culto,
pur facendo riferimento a realtà empiriche verificabili, non
è tuttavia sufficiente perché estremamente parziale e
riduttivo di un’esperienza religiosa e perché presuppone la
postulazione di una divinità, cosa che come è già stato
accennato non è presente in tutte le religioni (es: il
buddismo, dove la principale forma di ‘culto’ consiste in
esercizi mentali di concentrazione).
È ‘confessione religiosa’, secondo questo parametro, ciò che
è percepito come tale dal sentimento popolare. È un criterio
sicuramente più ampio di quello del rito ma pecca sotto il
profilo della tassatività, in quanto essenzialmente
generico, non esistendo a monte alcun criterio per
individuare con esattezza tale opinione. Inoltre è
indubbiamente deficitario e labile perché tendente a mutare
nel tempo, oltreché inevitabilmente soggetto alle pressioni
della cultura della confessione preminente. È d’uopo
aggiungere poi che, in un contesto di pluralismo, è proprio
là dove manca il peso politico che si rendono necessarie
tutele e garanzie, grazie al fatto che le maggioranze, al
contrario delle minoranze, hanno la forza per difendersi da
sole. Ancora, la tradizione non possiede alcuna base
normativa ed è pertanto inidonea a fungere da elemento
interpretativo: infatti il problema dell’individuazione di
una nozione di ‘confessione religiosa’ non riguarda le
realtà già esistenti e radicate nella cultura del territorio
di riferimento, poiché esse ormai sono comunemente
considerate tali, ma riguarda quelle non tradizionali.
Questa convinzione, oltre a essere stata debellata da una
sentenza della Corte costituzionale del 1958, pone in
evidente imbarazzo l’articolo 19 della Costituzione che
prende in esame il solo limite del ‘buon costume’,
riferendolo poi solo ai riti e mai ai principi.
La concezione teleologica sposta l’attenzione dal termine
‘confessione’ al suo attributo, ‘religiosa’, unendo al
criterio concettuale della concezione sociologica un proprio
criterio basato sugli aspetti ‘finali’ della confessione.
Indubbiamente garantisce una maggiore tassatività, in quanto
si riferisce al fine specifico perseguito dalla formazione
sociale in questione.
Dal punto di vista teleologico infatti, per dirla con A.
Ravà, «si ha confessione religiosa là dove scopo finale
della collettività (…) è favorire il contatto fra
l’individuo e potenze trascendentali». Questa concezione
individua alcuni specifici elementi. Un primo elemento
risiede nella generalità dello scopo religioso della
confessione rispetto a quelli più specifici di promuovere la
perfezione della vita religiosa, di incrementare il culto e
di compiere atti di pietà e di carità; consentendo così una
realizzazione più completa delle finalità della confessione.
Tutta da dimostrare è la capacità dello ‘Stato laico’ nel
discernere tra scopi generali e scopi non generali,
prescindendo dal carattere immanente della confessione
stessa e dalle sue implicazioni civili come le prerogative
dei ministri di culto o la validità civile del matrimonio.
Non c’è ‘una’ religione ma diverse ‘religioni’,
necessariamente definibili solo al plurale. Ogni religione
non giudica mai se stessa alla pari delle altre. Scriveva
Ludwig Feuerbach nel suo capolavoro «L’essenza del
cristianesimo», quasi due secoli fa:
«Nel rapporto con le cose esteriori la coscienza che l’uomo
ha dell’oggetto è distinguibile dalla coscienza che l’uomo
ha di se stesso; ma trattandosi dell’oggetto religioso la
coscienza e l’autocoscienza vengono senz’altro a
identificarsi… ciò che l’uomo pone come oggetto null’altro è
che il suo stesso essere oggettivato… la religione è la
prima ma indiretta autocoscienza dell’uomo.
Ogni religione particolare che definisce idolatrie le sue
più antiche sorelle, esclude se stessa - ed invero
necessariamente, altrimenti non sarebbe più religione - da
questo destino, da questa natura universale della religione;
soltanto alle altre religioni attribuisce ciò che pur sempre
rimane - se pure in modo diverso - il vizio della religione
in generale.
Per il cristiano è certa, reale, solo l’esistenza del dio
cristiano, per il pagano l’esistenza del dio pagano. Il
pagano non metteva in dubbio l’esistenza di Giove, non
poteva rappresentarsi Dio con una natura diversa, perché
questa natura era per lui la sola certa, reale, divina…»
Marfa
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