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Culpa in educando-genitorialità.

017 ..:: 14.02.2017 :: 12:30

 

 

 

 

 

::: SOVERATO :: Come stabilisce la giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., Sez. III, 26/06/2001, n. 8740; Cass. civ., Sez. III, 11/08/1997, n.7459), nelle ipotesi di fatti illeciti commessi da alunni durante l’orario scolastico, con quelle dei docenti sussiste la responsabilità concorrente dei genitori, ex art. 2048 c.c., i quali non abbiano saputo impartire un’educazione adeguata a prevenire comportamenti illeciti. La responsabilità risarcitoria dei genitori di un minore capace di intendere e volere che commetta un fatto illecito, non viene meno, anche se esso è affidato a persona idonea a vigilarlo e controllarlo, perché persiste la presunzione di culpa in educando, che costituisce l'altro fondamento dell'art. 2048 del C.C. (Cass. 25 marzo 1997 n. 2606). Trattasi di responsabilità solidale ex art. 2055 c.c. e non alternativa. La giurisprudenza di legittimità (Cass. civ. Sez. III n. 12501/2000;) stabilisce che la responsabilità del genitore e dell’insegnante sono concorrenti, di natura solidale e non tra loro alternative. Colui che ha risarcito l’intero danno, può esercitare il diritto di regresso nei confronti degli altri condannati, al fine di ottenere, da questi, la restituzione delle somme pagate nella misura superiore al grado di responsabilità accertato. E così, se nella causazione del fatto illecito dell’allievo il genitore ha avuto una responsabilità del 20% e l’insegnante nella misura dell’80%, colui che ha pagato l’intero debito. La Corte di Cassazione (Sez. Civ. Sez. III n. 12501/2000), infatti, stabilisce che “l’affidamento del minore alla custodia di terzi (insegnanti) solleva il genitore dalla presunzione di colpa in vigilando (dal momento che dell’adeguatezza della vigilanza esercitata sul minore risponde il precettore cui lo stesso è affidato), ma non anche da quella di colpa in educando, i genitori rimanendo comunque tenuti a dimostrare, per 7 liberarsi da responsabilità per il fatto compiuto dal minore in un momento in cui lo stesso si trovava soggetto alla vigilanza di terzi, di avere impartito al minore stesso un’educazione adeguata a prevenire comportamenti illeciti”. Il genitore, per andare esente da qualsiasi responsabilità giuridica relativa al fatto del figlio-alunno, deve superare la presunzione di culpa in educando ex art. 2048 c.c., attraverso la prova liberatoria, che consiste nel dimostrare “di avere impartito al figlio un’educazione normalmente idonea, in relazione al suo ambiente, alle sue attitudini ed alla sua personalità, ad avviarlo ad una corretta vita di relazione e, quindi, a prevenire un suo comportamento illecito, nonché, in particolare, a correggere quei difetti (come l’imprudenza e la leggerezza ) che il minore ha rivelato”. Inoltre, la giurisprudenza in esame stabilisce che il genitore deve accertarsi che il minore abbia assimilato l’educazione ricevuta, che il medesimo tenga una condotta abituale conforme ai precetti impartitigli. “Nell’opera d’educazione, in altri termini, è insita un’attività di vigilanza sulla rispondenza del comportamento del minore e sui risultati concreti dell’attività educativa” (Cass. civ. n. 7247/1986). Si tratta di una prova liberatoria quanto mai rigorosa e che assai difficilmente riesce ad essere fornita, tanto più ove si consideri che – secondo alcune pronunce – la commissione dell’illecito da parte del minore dimostrerebbe ex se l’insufficienza di educazione e controllo. Tale atteggiamento di estremo rigore sembra dettato dall’esigenza di offrire comunque tutela risarcitoria al soggetto danneggiato, posto che, di regola, i minori non hanno patrimonio (ed il danno potrebbe, in ultima analisi, rimanere a carico di chi lo ha subito). Si deve quindi ritenere che ci troviamo in presenza di illeciti per i quali il criterio di imputazione della responsabilità è costituito dalla colpa, e quindi perché possa operare il disposto della norma in questione è comunque necessario che il danno ingiusto sia stato cagionato da una condotta dolosa o quantomeno colposa del minore; in caso negativo, sarà da escludere qualsiasi responsabilità in capo al minore e, di conseguenza, ai suoi genitori. Vi è da dire che l’art. 2048 c.c. non introduce alcuna distinzione fra i minori a seconda della loro età, sicché il regime di responsabilità che deriva dall’illecito di un diciassettenne è uguale a quello che consegue dal medesimo fatto di un dodicenne (sempre che entrambi siano capaci di intendere e di volere nella singola fattispecie). Manca quindi una graduazione della responsabilità che tenga conto della figura del “grande minore”; né la giurisprudenza ha saputo individuare criteri interpretativi specifici in funzione dell’età del minore prossimo ormai ad acquisire la piena capacità di agire, diversamente da quanto accade in altri ordinamenti (ad es. quello francese e tedesco) che contemplano una normativa assai simile alla nostra. In tale contesto non è certo fondatamente pensabile far rispondere i genitori per l’illecito del figlio vicino alla maggiore età (si pensi soprattutto ad incidenti stradali, cagionati dalla circolazione di ciclomotori o motorini) invocando un difetto presunto di educazione, ovvero di vigilanza. Delle due l’una: o si ampliano i margini della prova liberatoria (come hanno cercato di fare alcune pronunce, su cui v. infra), ovvero si perviene alla conclusione che la responsabilità dei genitori è finalizzata a garantire un 8 ristoro al danneggiato, con una traslazione del danno in capo a coloro che, comunque, sono legati da un rapporto giuridico qualificato con l’autore dell’illecito. Il presupposto per l’applicazione di questa norma, cioè l’art.2048, è che i minori siano capaci, dal punto di vista naturale, di intendere e di volere; in caso contrario, il genitore, il tutore o l’affiliante possono ugualmente rispondere, ma nella veste di sorveglianti di un incapace, in base all’art. 2047 c.c. Appare necessario rammentare che, nella materia civilistica, non trovano applicazione i criteri rigidi previsti in sede di imputabilità penale (artt. 97, 98 c.p.), i quali stabiliscono una presunzione assoluta di non imputabilità per il minore degli anni quattordici, restando invece affidata al giudice la valutazione caso per caso circa la sussistenza, o meno, nel minore ultraquattordicenne, della capacità in questione. Si è così più volte precisato in giurisprudenza, per quanto qui rileva, che, al fine di accertare se il minore sia incapace di intendere e di volere, il giudice non può limitarsi a tener presente l’età dello stesso e le modalità del fatto, ma deve anche considerare lo sviluppo intellettivo del soggetto, quello fisico, l’assenza di malattie ritardanti, nonché la capacità del minore di rendersi conto del disvalore della sua azione. Di conseguenza anche bambini di età inferiore ai quattordici anni ben potrebbero essere ritenuti capaci di intendere e di volere, in relazione a fatti illeciti parametrati alla loro peculiare situazione personale. Ciò comporta che il minore capace potrebbe essere chiamato a rispondere, (rappresentato, naturalmente, dai genitori), in solido con l’insegnante (rectius con la P.A. in caso di dipendente statale ai sensi dell’ art.61 L.312/80) del danno ingiusto causato ad altri. Il minore potrebbe anche essere ritenuto responsabile in modo esclusivo del fatto illecito, qualora in base alla maturità psico-fisica raggiunta , egli fosse ritenuto in grado di “badare a se stesso”, cioè in grado di valutare e di scegliere la condotta da tenere nella situazione specifica e avesse violato le regole di prudenza e diligenza.
 

Cafa
 




 

 

 

 

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