010..:: 08.12.2013
Nella foto, la professoressa Luciana Distante.
Lecce..:: Pietro Mascagni fu tra i più rappresentativi
esponenti della cosiddetta GIOVANE SCUOLA, scuola verista,
che negli ultimi decenni del XIX secolo dette vita in Italia
a un nuovo tipo sanguigno di melodramma. Per consuetudine il
suo nome si trovò sempre affiancato a quello di Puccini,
Giordano, Ciléa e Leoncavallo e con questi egli divise
successo, popolarità,valori e limitazioni.
Il più importante avvenimento della vita musicale italiana
nell’età umbertina è Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni.
Il giovane livornese partecipava con questa breve opera al
concorso Sonzogno nel 1888; sbaragliò con il successo
ottenuto, gli altri due concorrenti scelti dalla
commissione, a tal punto da raggiungere la notorietà e
rinverdire improvvisamente le glorie dell’ormai stanca vita
operistica italiana. Grazie a Cavalleria l’opera tornava al
ruolo ufficiale di spettacolo “popolare” per eccellenza: si
caratterizzava di una serie di valori legati alla provincia
rurale quali immediatezza, sincerità, autenticità di
sentimenti, esaltazione della più pura italianità e
ritrovamento di un concetto di popolo. Il successo di
Cavalleria richiamò le energie creative di tanti giovani
distogliendoli dal genere strumentale nascente. Infatti ci
fu un pullulare di imitazioni di scarsa fortuna come Tilda
di Cilea, Mala vita di Giordano, A Santa Lucia di Tasca nel
1892, ma il modello di Cavalleria (forti passioni
elementari, in ambiente rusticano) vive in alcuni dei grandi
successi del decennio quali: Pagliacci di Leoncavallo
(1892)e, Arlesiana di Cilea (1897). Non fu difficile poi,
rintracciare il genere - Cavalleria nell’area slava e
ungherese, scandinava o spagnola. Il significato del termine
“Giovine scuola italiana” venne coniato per indicare non
tanto un’identità di stile e di gusto, quanto piuttosto il
fenomeno di un’intera generazione di nuovi “geni” nazionali
nel clima di rinnovata attenzione verso il melodramma che
Cavalleria aveva tanto prepotentemente suscitato. Alla
Giovine Scuola appartengono di diritto, oltre a Mascagni,
Leoncavallo, Cilèa, Giordano, Franchetti, Puccini. Ma
riguardo alle specifiche scelte artistiche risulta
necessario stabilire, tra questi autori e queste opere,
molteplici differenze; ed è proprio la definizione di
“verismo musicale” che ci indica alcune predilezioni nella
scelta dei soggetti. È il genere Cavalleria responsabile di
tante successive violenze sceniche con relativi urli
musicali: il tentato stupro di Nedda da parte di Tonio, e le
pugnalate di Canio a Nedda e a Silvio (Pagliacci); il
tentato stupro di Tosca da parte di Scarpia e
l’accoltellamento di lui in piena scena (Tosca); lo
strangolamento di Luigi da parte di Michele (Tabarro); il
ferimento in duello di Gérard da parte di Andrea (Andrea
Chénier). Altrettanto determinante fu, nell’ottica del
verismo, lo sforzo di ambientazione mediante “colori tipici”
coinvolgenti sempre le scelte di linguaggio musicale, ad
esempio: la cornetta degli attori girovaghi dei Pagliacci,
lo stornello toscano del Gianni Schicchi, il rintocco del
campanone di S. Pietro in Tosca, la melodia alsaziana
“originale” dell’Amico Fritz. Il genere “verista” tende ad
inibirsi, a ricercare raffinatezze e i più diversi titoli di
nobiltà culturale. Rilevante fu il riferimento al Settecento
galante ma altrettanto significativo fu il filone “esotico”:
dal Giappone dell’ Iris di Mascagni (1898) a quello di
Madama Butterfly (1904), fino alla Cina della Turandot
(1924) di Puccini. Gli autori della Giovine Scuola si
incontrarono con le istanze del decadentismo letterario,
che, prima dell’intervento di D’Annunzio nelle vicende
musicali d’Italia, ebbero il loro campione in Luigi Illica:
si deve a lui l’orientalismo di Iris e di Madama Butterfly e
il settecentismo dell’Andrea Chénier e quello delle
Maschere. Nel “Medioevo” viene collocata una simbologia che
ruota, principalmente, intorno al tema della sensualità:
spiccano i libretti per Mascagni quali Zanetto del 1896 (una
donna fatale innamora di sé un ignaro e candido menestrello)
e Isabeau del 1911 (un’ascetica principessa viene convertita
alle ragioni dell’erotismo). Ma è sicuramente D’Annunzio il
punto di riferimento per l’ingresso nei soggetti d’opera
della Giovine Scuola di sensazioni primordiali, di abissi
sensuali, così come avviene in Parisina per Mascagni (1913)
e con Francesca da Rimini per Zandonai (1914): tra Medioevo
e Rinascimento si accampano amori disperatamente carnali e
assoluti, inni alla vita in un quadro di morte e di sangue,
come è quello delle corti minacciate in ogni momento da
veleni e pugnali. I diversi musicisti cercano di rigenerare
radicalmente il proprio linguaggio, con arcaismi sparsi a
piene mani e con ricostruzioni sonore preziose. Ma tanto più
prezioso e raffinato è il contesto, tanto più tremendo e
sensualmente teso è il canto di queste creature estenuate e
divorate da sensazioni estreme: si aprono prospettive di
“tonalità allargata”, di urti dissonanti, di sistemi scalari
non tonali. È possibile indicare un nucleo costante e comune
nella drammaturgia musicale della Giovine Scuola: quello
della cantabilità sentimentale corrispondente ad una storia
d’amore, resa tanto più sconvolgente e commovente quanto più
varie e contrastanti sono gli elementi di contorno e di
contesto; è in genere la protagonista femminile di queste
opere a conservare, nelle varie situazioni di luogo e di
tempo, una misura che ce la rende vicina: ed è anche questo
“verismo”!; contro questa misura a volte vedremo alcuni
musicisti che tentarono il grande salto verso un teatro di
idee e non di commozione, un teatro di miti e non di
sentimenti: ma non c’era spazio con il pubblico del teatro
d’opera italiano di quegli anni per prospettive simili a
quelle di Debussy o Strauss. Nonostante ciò si può dire che
la storia di questi anni è anche storia di utopia, poiché si
annida in scelte intellettualistiche destinate in partenza a
non aver vita vera: ne sono dimostrazione i più numerosi
fallimenti di Mascagni, Leoncavallo, Cilea e Giordano
rispetto ai pochi successi; anche Puccini, che seppe trovare
il successo più a lungo, lascerà incompiuta la sua ultima
opera, Turandot perché di fronte ad una protagonista “non
sentimentale”.
Il sodalizio con Giovanni Targioni Tozzetti, figlio di
Ottaviano, portò alla stesura del libretto d’opera della
Cavalleria rusticana, per il concittadino compositore P.
Mascagni. Il libretto seppur realizzato sulla scia del
clamoroso successo conseguito nel 1884 dall’atto unico di G.
Verga, mise del tutto da parte la tematica sociale – già
ridimensionata in rapporto alla novella nella successiva
trasposizione in dramma – e diluì sotto forma di un
colorismo folklorico quello che Verga aveva concepito, e
impresso all’azione teatrale in prosa, come descrizione
d’ambiente.
Il successo conseguito dall’opera decretò la fama dei due
giovani librettisti.
Il librettista riesce a esprimere tutto il pessimismo
verghiano, che unisce l'impossibilità dell'elevazione del
proprio essere, con quella di tipo economico o sociale. Alla
base di tale pessimismo sta la profonda convinzione che la
società moderna sia dominata dal meccanismo della lotta per
la vita. (1)
Là dove il libretto non prevedeva canzoni o simili, Mascagni
propose soluzioni più geniali e personali, soprattutto per
quanto attiene il profilo del recitativo, che viene
innervato di una carica melodica a dir poco inedita.
Il pubblicò che decretò il trionfo internazionale di
Cavalleria rusticana, forse, non fu colpito dalle novità
stilistiche e formali cui ho fatto cenno; ciò che più
trascinò e convinse fu senza dubbio quel senso di “aria
aperta”, di Sicilia presa dal vivo quasi di cinematografia
ante litteram, che la partitura suscitava ad ogni momento,
al di là degli evidenti ossequi alla tradizione. Per
Mascagni l’eccezione riduttiva e per formula, del “verismo”
era una strada senza sbocco. Il pubblico internazionale di
quegli anni si aspettava che Mascagni continuasse sulla
strada che aveva indicato. E invece, tranne il marginale
saggio di Silvano (1895; un vero ricalco di Cavalleria), le
ragioni profonde del suo teatro (cioè non quelle del
successo) urgevano verso sbocchi molto meno facili e
lineari: proprio su questa strada, che passerà attraverso
l’ormai completato Guglielmo Ratcliff, Iris, Isabeau e
Parisina, Mascagni dovrà verificare a suo malgrado,
l’impossibilità di liberarsi davvero dal destino di essere
“l’autore di Cavalleria rusticana”.
Evidente in Mascagni un’instabilità nella scelta dei
soggetti che denuncia sempre di più la fine di quelle
rassicuranti indicazioni, che da sempre erano derivate dal
filo rosso dei “generi” operistici, regolati dal rapporto
tra musicista e librettista, tra musicista e impresario, o
editore, tra musicista e pubblico.
L’inquietudine di Mascagni denota la fine di un’estetica,
quella basata sulla retorica della spontaneità e della
naturalezza, a vantaggio di un’altra estetica, anch’essa
basata su una costellazione di luoghi retorici: maestria
compositiva, abilità dell’orchestratore, nobilitazione del
teatro musicale attraverso l’elevatezza dei testi letterari,
la competizione “alla pari” tra letterato-librettista e
musicista.
Ma questa sua sfrenata voglia di crescere culturalmente,
musicalmente e umanamente,vedi la sua continua evoluzione
musicale e quindi anche nella scelta letterario-
librettistica, non gli ha reso onore e giustizia in vita,non
lo ha appagato degli sforzi umani, psicologici e musicali
che ha dovuto subire. Ecco perché Mascagni muore del suo
mascagnismo. (2)
Luciana Distante
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Note:
(1) Mascagni parla: appunti per le memorie di un grande
musicista, a cura di S. De Carlo, Milano-Roma 1945;
(2) G. Orsini, Vangelo d’un mascagnano, Roma 1932;
www.assodolab.it
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