028..:: 18.05.2012
..:: Nella foto, Nembrotte Menna Luciana
Cos' è una lingua? Da
dove viene, come cambia e come convive con le altre?
Facciamo un grande passo indietro.
Per conoscere l'italiano nella sua evoluzione storica
occorre risalire al latino e precisamente al latino volgare
o popolare, quello che la gente parlava ogni giorno e che
venne chiamato volgare da vulgus = popolo, per distinguerlo
dal latino letterario, da quello dell'ars di Cicerone,
Cesare, Ovidio, Virgilio ecc.
La letteratura italiana nasce e si sviluppa nel corso del
XIII sec., in un periodo in cui nuovi strati di
intellettuali emergono dalla rivoluzione socioeconomica
legata all'affermarsi dei Comuni.
I ceti emergenti in questo periodo sono i mercanti, che per
i loro commerci e per le loro attività pratiche usano il
volgare, più semplice e più adatto agli scambi di quanto non
fosse il latino.
Naturalmente l'affermazione iniziale del volgare avviene con
molte difficoltà. I problemi maggiori però non erano tanto
quelli posti dai cultori laici ed ecclesiastici del latino,
quanto quelli posti dall'esigenza di farsi capire sia dalle
persone colte che dal popolo. Da un lato infatti s'imponeva
l'uso della lingua di tutti i giorni, dall'altro - essendo
questa lingua divisa in tanti dialetti e scarsamente
definita - c'era il rischio di creare una letteratura sempre
subalterna al latino, il quale, nonostante non fosse più
parlato dalle masse, restava la lingua scritta universale.
Di qui l'esigenza di trovare un compromesso.
Col passar del tempo, i volgari aumentano d'importanza e di
prestigio, affermandosi gradualmente anche nell'uso colto e
letterario.
Il gruppo più significativo si formò in Sicilia, alla corte
di Federico II di Svevia. L'imperatore, uomo di vasta e
raffinata cultura, raccolse intorno a sé una schiera di
poeti, che scrivevano i loro componimenti in un «siciliano
illustre»: un siciliano, cioè, depurato dai tratti più
vivacemente dialettali e influenzato sia dal latino, lingua
dei dotti, sia dal provenzale, lingua della lirica amorosa
del tempo.
Ma fu col passare nella Toscana comunale che la moda poetica
inaugurata dai Siciliani arrivò a maggiore complessità di
temi e a una nuova profondità, prima con Guittone d'Arezzo e
i suoi seguaci, cantori della vita morale e religiosa oltre
che dell'amore, poi con i poeti dello Stil novo che all'idea
dell'amore cortese impressero il segno di una forte
interiorità..
Nel Trecento uno dei fatti di maggiore rilievo fu il
carattere eminentemente, se non esclusivamente, toscano che
assunse la letteratura italiana. Temi e lingua degli
stilnovisti s'imposero nella lirica d'amore. A Dante,
Petrarca, Boccaccio, soprattutto spetta il merito di avere
fatto della lingua fiorentina la lingua letteraria d'Italia.
Il Petrarca fu l'iniziatore dell'Umanesimo, e la sua poesia
volgare del Canzoniere,ben presto fu riconosciuta modello di
eleganza, degno di reggere il confronto con i più insigni
testi della poesia antica.
Dopo quella grande stagione del volgare che fu il Trecento,
il Quattrocento ci appare come un secolo contraddittorio.
perché da un lato continua e si estende il processo di
toscanizzazione linguistica, dall'altro si ha con
l'Umanesimo una forte ripresa del latino.
L'Umanesimo quattrocentesco , infatti, favorì nei maggiori
esponenti della letteratura volgare quella nuova sintesi di
antico e di moderno, di popolare e di letterario che in
varie forme si riconosce negli scritti di Leon Battista
Alberti, di Angelo Poliziano, di Lorenzo de' Medici, di
Iacopo Sannazzaro, e che si trova con impronte originali
nell'Orlando innamorato del Boiardo, poema dalle storie
cavalleresche, divenute svago del popolo e della borghesia.
Nel Cinquecento la lingua letteraria diviene più stabile e
più solida, grazie anche ad un'intensa attività critica
intorno alle radici e ai modelli dell'italiano: vi sono
numerosi tentativi di sistemazione grammaticale. Appunto nel
corso di questo secolo giunge al suo culmine quella
lunghissima controversia sulla norma linguistica da adottare
nelle scritture che prende il nome di «questione della
lingua».
Il letterato veneziano Pietro Bembo, nelle Prose della
vo!gar lingua(1525) afferma l'esigenza di rifarsi al toscano
letterario arcaico, rappresentato in particolare dal
Boccaccio per la prosa e dal Petrarca per la poesia.
La vittoria della linea bembiana fu sancita nella stessa
Firenze da un'istituzione che sarebbe rimasta a lungo un
autorevole tribunale della nostra lingua letteraria: ci
riferiamo all'Accademia della Crusca, fondata verso la fine
del Cinquecento da un gruppo di dotti che si proponevano di
distinguere la «farina» dalla «crusca», cioè le parole buone
da quelle non buone. Una vivace reazione al purismo espresso
dal Vocabolario della Crusca si ebbe nel Settecento, con
l'Illuminismo. Particolarmente attivo nella polemica fu il
gruppo milanese raccolto intorno alla rivista “Il Caffè”
(1764-1766), sotto la direzione dei fratelli Pietro e
Alessandro Verri. Dalle pagine del "Caffè" i fratelli Verri
rivendicarono con forza la necessità di un linguaggio nuovo,
adatto ad una società più moderna.
E’ soltanto a partire dal secondo Ottocento che l'italiano
scritto si avvicina all'italiano parlato.
Il Manzoni riconosce che la lingua è un bene di tutti, non
un patrimonio riservato a poche persone colte. La lingua
letteraria rappresenta solo una parte del sistema
linguistico, il quale deve adeguarsi ai bisogni comunicativi
dell'intera società dei parlanti. Ne deriva, da un lato, il
rifiuto del purismo, che pretende di applicare la lingua del
passato alle esigenze del presente; dall'altro, il
riconoscimento della priorità dell'uso parlato su quello
scritto.La base migliore per realizzare l'unità linguistica
contro la molteplicità dialettale è indicata dal Manzoni,
nel fiorentino vivo:" in quanto fiorentino, cioè lingua di
grande prestigio letterario, e in quanto vivo, cioè
effettivamente parlato".
La soluzione manzoniana subì forti critiche, come quella di
Ascoli nel Proemio dell’Archivio Glottologico Italiano, in
cui nota che motivo della mancata unità linguistica è lo
scarso impegno intellettuale della moltitudine di persone, e
che ogni nuova proposta come quella manzoniana non avrebbe
avuto alcun giovamento, ma anzi avrebbe posto ulteriori
problemi sulla forma letteraria. Tuttavia Manzoni ebbe il
merito con i Promessi Sposi di aver contribuito a una prosa
più sciolta, limpida e vicina all’italiano medio nazionale.
L'unità d'Italia, proclamata nel 1861 e compiuta nel 1870,
ebbe profonde conseguenze non solo sul piano strettamente
politico, ma anche su quello sociale, economico e culturale.
Si avviarono allora significativi processi di trasformazione
e di sviluppo in tutti i settori della vita nazionale, con
inevitabili riflessi sulla lingua. Tra questi, ha una
particolare importanza il fenomeno dell'urbanizzazione,
collegato a quello dell'industrializzazione: milioni di
italiani hanno lasciato le campagne e i piccoli centri per
trasferirsi nelle grandi città, sedi di attività lavorative
più redditizie. S'incontrano così parlate diversissime: tra
i vecchi e i nuovi cittadini nasce la necessità d'intendersi
in qualche modo, che spinge ad usare la lingua nazionale,
sia pure con influssi dialettali e regionali a volte
notevoli.Una spinta efficace al rinnovamento dell'italiano,
e insieme alla sua unificazione, è venuta dai mezzi di
comunicazione di massa: i giornali, la radio, la televisione
usano un italiano di neologismi, forestierismi, tecnicismi,
e lo fanno conoscere ai cittadini di ogni regione e di ogni
classe.
Oggi è nata una nuova lingua, che non nasce dai nostri dotti
del passato, bensì dalla tecnologia, dalla comunicazione che
si ha tramite i telefonini, i blog, le chat, facebook e
twitter.
Però un sms e un tweet hanno necessità di spazi che
costringono a qualche risparmio e a qualche escamotage, ed
ecco come le parole, per necessità di spazio, cambiano: un
che diventa ke, un ti voglio bene si scrive TVB, però si
trasforma in xò, insomma contrazioni e/o abbreviazioni di
intere frasi .
Quindi non si tratta di impoverimento, è la lingua che
cambia in base a chi la usa e al contesto. La tecnologia non
è usata solo dai giovani, ma anche da gente di una certa età,
come un professore o un sindaco, che,dato il ruolo che
ricoprono nella società, non si pronunceranno mai come un
sedicenne che tende a scrivere come una stenografa.
Insomma è una questione di "stile".
Nembrotte Menna
Luciana
www.assodolab.it
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