039..:: 02.11.2013
Nella foto, la soprano, Luciana Distante.
Proseguiamo questo «percorso musicale» a
cura di Luciana Distante, soprano. E' una iniziativa
dell'Assodolab riservata a coloro che amano la "buona
musica" e gli "autori del passato" che ci accompagnerà per tutto l'anno 2013 su
queste pagine web del nostro Supplemento di informazione
on-line
www.lasestaprovinciapugliese.it
La prossima uscita sarà il prossimo sabato.
La Redazione
Prof. Agostino Del Buono
Regione Puglia, LECCE..:: Rigoletto è l’opera che
insieme a La Traviata e Il Trovatore, fa parte della
TRILOGIA POPOLARE di G. Verdi e che segna una svolta
operistica non indifferente.
Rigoletto, grande capolavoro verdiano, è opera di conflitti
laceranti.
Si può compiere una prima verifica sulla funzionalità di un
sistema drammatico costruito su opposizioni prendendo in
esame il modo in cui Verdi ha impiegato un ingrediente
tipico del teatro d’opera ottocentesco, la ‘musica in
scena’, cioè concretamente prodotta sul palcoscenico da voci
insieme a strumenti (come nel caso, piuttosto frequente,
delle bande) o dietro le quinte (oppure in altri luoghi) da
voci e/o strumenti.
Verdi era solito sfruttare la distinzione delle fonti sonore
nello spazio per creare diversi piani narrativi, e lo
vediamo sin dal quadro iniziale.
In questo momento si crea il primo e più immediato
contrasto, quello tra l’atmosfera di festa ed il dramma che
aleggia sui protagonisti. La prima scena è interamente
occupata da una festa, dove ha inizio una strategia
elaborata per imprimere una connotazione specifica
all’impianto generale dell’opera: la vita della corte
rinascimentale di Mantova diviene il presupposto dei
conflitti drammatici che seguiranno.
Realistico l’avvio, affidato alla banda che da sola e dietro
le quinte, mentre il palcoscenico è sfarzosamente illuminato
e pieno di dame e cavalieri, attacca una musica da ballo in
La bemolle maggiore. Un primo contrasto è espresso dai
differenti piani di sonorità che incarnano due
atteggiamenti: alla forza dirompente del conciso e tragico
preludio affidato all’orchestra segue il tenue e frivolo
motivetto che viene da fuori. Basta questa continuità fra
una musica ancora priva di connotazione – solo alla fine
della scena verrà, ad inquadrarla, la maledizione di
Monterone – e una musica spensierata, volutamente priva di
costrutto, a garantire ricchezza di sfumature psicologiche.
Visibile sul palco, oltre alla banda collocata dietro il
fondale, è disposta una piccola orchestra d’archi, composta
da due violini, una viola e un contrabbasso, che accompagna
le danze. Verdi impiega dunque ben tre fonti sonore, a cui
affida uno specifico ruolo drammatico: alla banda quello di
far indovinare uno spazio esterno dove tutto è lecito,
mantenendo con esso un vivo rapporto di sincronia, e al
tempo stesso di accompagnare i recitativi da lontano
conferendo alla parola un rilievo assoluto, all’orchestrina
sulla scena il ruolo ufficiale di eseguire le danze più
raffinate che incarnano la galanteria di facciata del
cortigiano.
All’orchestra in sala, infine, è riservato il compito di
accrescere il livello emotivo di certi passaggi,
accompagnando la ballata del Duca e il concertato, e di
rafforzare l’impatto del momento in cui farà il suo ingresso
Monterone .
L’altro luogo dell’opera in cui un evento che si svolge
all’esterno è posto in relazione col quadro visivo e con il
dramma è la tempesta del terzo atto.
Qui Verdi impiegò, ed è un unicum nel suo teatro, il coro
maschile in funzione connotativa: lo schema della mimesi
dell’atmosferico prevede il lampo, seguito dal tuono (cui da
voce il rullo dalla gran cassa interna) e dal coro maschile,
che vocalizza a bocca chiusa sopra un movimento cromatico di
terze parallele, il cui ambito d’estensione accompagna le
varie fasi d’intensità del fenomeno. L’effetto ha mire
realistiche, ma viene prodotto con mezzi onomatopeici.
Questo ‘vero’ ricreato è il clima ideale per un omicidio,
poiché accresce a dismisura la tensione e interagisce con i
personaggi: Sparafucile, da bravo professionista, intravede
i vantaggi per il proprio lavoro («La tempesta è vicina!.. /
Più scura fia la notte»), mentre Gilda torna sui suoi passi
con l’animo scosso da oscuri presagi («Qual notte d’orror»).
Maddalena, che per salvare il giovane di cui s’è invaghita
ha convinto il fratello a uccidere il primo viandante che
busserà alla porta, viene colta da una comprensibile ansia
(«È buia la notte, il ciel troppo irato, / Nessuno a
quest’ora da qui passerà»), dal canto suo il Duca rimane
totalmente indifferente all’osservazione di Sparafucile («E
pioverà tra poco – Tanto meglio / Io qui mi tratterrò »).
Ma la tempesta ha l’effetto più forte su Rigoletto, al suo
rientro in scena per riscuotere il sacco che ha
commissionato:
Qual notte di mistero!
Una tempesta in cielo!..
In terra un omicidio!...
Oh come invero qui grande mi sento!...
Il fulminante parallelismo fra cielo e terra, fallace
presupposto della sua grandezza, gli si rovescerà addosso
poco dopo con tutta la forza di un’ironia che più tragica
non potrebbe essere.
Verdi, dunque, ricorse alla musica in scena solo nel quadro
d’apertura e per gli effetti della tempesta. Tutto il resto
del dramma si sviluppa intorno all’idea di rendere il più
manifesto possibile ciò che è o potrebbe restare implicito,
cardine di un dramma in cui la stessa visibile difformità
fisica serve a mettere in enfasi quella morale.
Il proposito di far interagire esplicito e implicito portò
inoltre il compositore con coerenza anche a realizzare un
progetto scenico, in cui fossero riuniti anche visivamente
interno ed esterno in ben due quadri: la casa di Rigoletto
sulla via cieca di Mantova nel primo atto e l’osteria sul
Mincio di Sparafucile nel terzo. La scena divisa in due
parti rifletteva l’idea drammatica dell’opera in cui le due
zone si scambieranno i ruoli, da positivo a negativo, nella
prospettiva di Rigoletto: l’interno della casa s’identifica
col mondo intimo dell’affetto paterno del protagonista, ma
il rapimento dei cortigiani, che lo viola, innesta un
processo irreversibile che porta all’interno della taverna,
dove si compirà la tragedia.
Grande fu la preoccupazione di Verdi nel rendere più
evidente la sua volontà mediante la musica di scena. Perciò
anche quando utilizzò «La donna è mobile», canzone libertina
del Duca di Mantova, come semplice segnale rivolto a
Rigoletto per fargli aprire il sacco che stringe fra le
mani, non volle nascondere la fonte dell’effetto, e fece
attraversare al Duca visibilmente il fondo del palco
cantando. L’effetto è micidiale.
L’impianto scenico che mette in rapporto interno ed esterno
trova piena corrispondenza col trattamento drammatico -
musicale del soggetto, che Verdi controllò a diversi
livelli. Nella sottile interazione fra i due ambienti egli
seppe creare le premesse per il compimento della tragedia.
Ma ad esprimere il contrasto di cui l’opera è permeata sono
coinvolti anche due oggetti di scena. Quando Rigoletto torna
sui suoi passi, colto da cattivi presagi, incontra i
cortigiani che gli propongono di partecipare al rapimento
della Contessa di Ceprano. È un inganno atroce ma, come dice
a Marullo con cui s’intrattiene brevemente a dialogo, «In
tanto buio lo sguardo è nullo», e una palpata alla chiave
portagli con l’intento di convincerlo è sufficiente per
indurlo a partecipare a quella che crede l’ennesima beffa ai
danni di un cortigiano. Abbocca perché la scusa è
plausibile: durante la festa egli stesso aveva volgarmente
deriso Ceprano, mentre il Duca corteggiava la sua sposa («In
testa che avete / Signor di Ceprano?»), gli serve però «una
larva» onde mascherarsi. In luogo di essa gli viene stretta
al capo una benda che «cieco e sordo il fa» – come
c’informano i cortigiani stessi. Quella benda interrompe i
contatti col mondo, con la coscienza e con i buoni
sentimenti del protagonista che si rende complice della sua
stessa tragedia perché guidato dall’immoralità, e fa sì che
il traumatico ritorno alla realtà, dove i cani s’allontanano
con la loro preda, sia mille e mille volte più atroce. La
cecità degli occhi rimanda, così, a quella dell’animo
(essendo la sordità meno pertinente a una benda, e qui
utilizzata al fine pratico di rendere il protagonista
insensibile alle invocazioni d’aiuto della figlia).
Più importanti ancora sono le implicazioni del sacco, vale a
dire un oggetto in uso a macellai o bottegai, dunque di
basso rango, per di più calcato simbolicamente dal piede di
un miserabile che schiaccia un nobile. Esso cela per
l’ultima volta la realtà alla vista del buffone, e gli
consente di vivere per pochi, atroci istanti, una fallace
riconciliazione col potere testé umiliato. Dentro al sacco,
squarciato con rabbia e ansia indicibile nel riudire il
Duca, c’è tutto il mondo dei suoi affetti, c’è quella figlia
che sino a quel momento aveva salvato l’intimo del suo animo
dall’ostilità del mondo esterno.
Il gioco interno/esterno è dunque caleidoscopico, poiché
mille fili s’intrecciano in un telaio fittissimo: giunge un
segnale musicale (la ripresa de «La donna è mobile») a
giustiziare l’illusione di Rigoletto, visivamente
rappresentata da una ruvida scorza che ricopre una materia
palpitante. È come se un moto dell’animo venisse tradotto in
evidenza rappresentativa.
C’è poi un ulteriore elemento degno di attenzione e
riflessione.
L’ossatura di Rigoletto è fatta di duetti, forma dialogica
per eccellenza, ma se li si analizza bene, si scoprirà che
manca proprio quel confronto che essi sollecitano, e che
solitamente fa lievitare il dramma.
Non c’è dialogo tra padre e figlia: nel loro primo incontro
egli mostra tutta la sua preoccupazione per la precarietà
del loro destino, le riversa addosso tutto l’affetto di cui
è capace, e le fornisce, non senza esitazioni, qualche
scarna informazione su un passato che par quasi non
esistere, perché annullato nel presente, l’unico tempo che
sembri contare qualcosa per lui.
Quando padre e figlia torneranno ad incontrarsi, nell’atto
successivo, ben altra è la situazione, e quei fondati timori
che agitavano il buffone si sono infallibilmente tradotti in
realtà. Qui la struttura è assai complessa, visto che dalla
scena in versi sciolti (con l’eccezione dell’inserto corale
dei cortigiani, in versi ottonari) si passa direttamente a
un lungo ‘Adagio’ che principia con l’appassionata
confessione da parte di Gilda («Tutte le feste al tempio»),
una gemma melodica nel genere patetico, tale da commuovere
chiunque. Non però il genitore, messo di fronte al
fallimento delle sue legittime aspirazioni, che seguita
imprecando:
(Solo per me l’infamia
A te chiedeva, o Dio ...
Ch’ella potesse ascendere
Quanto caduto er’io ... [...])
ed è rivendicazione solitaria, un a parte di otto versi in
partitura dal carattere eroico, che viene così a cozzare
contro l’elemento patetico di Gilda.
Anche pochi istanti dopo, quando è il momento di consolare
la figlia per l’onta appena subita, il padre altro non fa
che tradurre il suo impulso in un’esortazione lirica dove,
ancora una volta, prende sulle sue spalle ogni
responsabilità ( “Piangi, fanciulla, e scorrer fa il pianto
sul mio cuor”).
Ma la piena incomunicabilità tra i due diviene ancor più
chiara nella cabaletta di questo secondo duetto, quando
Rigoletto rimane sordo alle invocazioni di pietà e perdono
della fanciulla, e dal suo angolo della scena si lancia in
un solitario, fremente, inno di morte per il suo nemico.
Gilda si limita a riprendere la melodia del padre, come
aveva fatto nella corrispondente sezione del primo duetto
(«Veglia, o donna» – «Quanto affetto! ...»), quasi che la
sua volontà s’annullasse di fronte a lui.
In questo percorso il Quartetto, in cui il buffone cerca di
distogliere la figlia dal sentimento d’amore per il Duca con
l’esempio, è ulteriore conferma che non esistono canali
d’intesa: l’articolazione per opposizioni incrociate di
registri vocali (soprano e baritono contro mezzosoprano e
tenore) e di luoghi scenici (l’interno dell’osteria contro
la deserta sponda del Mincio) è l’ideale premessa al terzo e
ultimo duetto, quando al padre non resta altro da fare che
raccogliere dalla morente l’ultima straziante confessione
(«L’amai troppo ... ora muoio per lui!...»), e di ricevere
una vana consolazione.
Col Duca, poi, non ci sono duetti, né avrebbero senso:
l’unico momento in cui signore e buffone sono insieme è la
festa, quando dividono la scena con tutti gli altri
cortigiani e scambiano poche, feroci battute. A differenza
del nobile Monterone, il padre plebeo non va apertamente a
reclamare giustizia, a prezzo della propria vita, ma agisce
come agirebbe il suo signore, pur coi limiti del suo rango.
Peraltro il buffone può solo beffare, e l’unico modo in cui
può realizzare i suoi propositi è quello di servirsi del
pugnale di un sicario. Per questo l’unico duetto in cui egli
intrattiene un reale rapporto di scambio con un altro
personaggio dell’opera è quello con Sparafucile, grande
pezzo drammatico in cui ogni convenzione salta per aria,
essendo costruito su un lungo dialogo in stile parlante:
sopra le voci dei due interlocutori scorre una sinistra
melodia in Fa maggiore di un violoncello e un contrabbasso.
Tutto è scuro, tutto è sinistro: la tessitura degli archi
che accompagnano su una figura ostinata, cui si aggiungono
nella seconda parte clarinetti e fagotti, non passa mai il
Do se non nelle ultime battute, dunque le voci insieme ai
due archi gravi si fondono in un mare di cupezza.
Questa strategia dei duetti, da cui manca un confronto
diretto fra servo e signore, enfatizza dunque la solitudine
di Rigoletto: nella mancanza di dialogo col Duca è il
buffone a farsi carico di una dimensione interiore
gigantesca, proprio perché ognuno va per la propria strada a
partire dall’inizio.
Rigoletto è dunque un padre che, accecato dai suoi
sentimenti nel bene e nel male, perde l’unico bene
autentico, è un buffone che viene elevato di rango. Di
fronte a questa costellazione il Duca di Mantova rivela
un’assoluta inconsistenza. Di più: par quasi una sorta di
fantasma che abita la mente di Rigoletto.
Rigoletto contiene in sé sia il comico sia il tragico, come
un vero eroe, mentre il suo contraltare rappresenta solo il
brillante.
Non solo: il potente-marionetta si muove sempre,
musicalmente e drammaticamente, come uno se lo aspetta,
intona ballate e fatue canzoni. Ha persino le stesse
reazioni del suo buffone, ma le rivela dopo. Rigoletto, nel
finale del prim’atto, torna sui suoi passi e borbotta tra sé
e sé: «(Riedo!... perché?)», percosso dal motto della
maledizione. All’inizio dell’atto successivo il Duca
dichiara:
Ella mi fu rapita!
E quando, o ciel? ne’ brevi istanti, prima
Che il mio presagio interno
Sull’orma corsa ancora mi spingesse!...
Il Duca, peraltro, non deve far fatica per ritrovare la sua
‘amata’, vista le devozione dei suoi scherani, e avrà ben
modo di consolare atrocemente il pianto della sua diletta.
Rigoletto concepisce un piano di vendetta contro un signore
inconsistente, si conquista un livello di dignità versando
lacrime, sudore e sangue, e se la maledizione lo stronca,
tuttavia non cancella tutto il travagliato processo che lo
porta ad esclamare: «O come invero qui grande mi sento»,
grido di una presunta rivalsa contro coloro che fino a quel
momento lo hanno sottomesso, immerso nei lacerti di una
tempesta che malintende.
Luciana Distante
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