026..:: 03.08.2013
Nella foto, la soprano, Luciana Distante.
Proseguiamo questo «percorso musicale» a
cura di Luciana Distante, soprano. E' una iniziativa
dell'Assodolab riservata a coloro che amano la "buona
musica" e gli "autori del passato" che ci accompagnerà per tutto l'anno 2013 su
queste pagine web del nostro Supplemento di informazione
on-line
www.lasestaprovinciapugliese.it
La prossima uscita sarà il prossimo sabato.
La Redazione
Prof. Agostino Del Buono
Regione Puglia, LECCE..:: Dopo Luisa Miller e
Stiffelio, nacquero Rigoletto (Venezia 1851), Il Trovatore
(Roma 1853) e La Traviata (Venezia 1853), i tre grandi
capolavori, noti come “trilogia popolare” o “trilogia
romantica”, che segnano una svolta nella drammaturgia
verdiana. L’approfondimento psicologico delle figure dei
protagonisti assume ben altro rilievo e originalità, il
linguaggio musicale verdiano è capace di ricreare complesse
situazioni drammatiche, articolando la scena secondo schemi
anticonvenzionali.
Gli anni immediatamente precedenti a questi tre celebri
lavori segnano una svolta anche nella biografia di Verdi:
l’agiatezza conquistata insieme con il successo gli consentì
di acquistare la villa di Sant’Agata (nel 1848) dove stabilì
la propria residenza. Gli fu compagna Giuseppina Strepponi ,
che Verdi sposò poi nel 1859.
Tratto da una pièce di Victor Hugo, Le roi s’amuse,
Rigoletto è un’opera profondamente innovativa sotto il
profilo drammaturgico e musicale. Per la prima volta al
centro della vicenda di un’opera drammatica troviamo un
buffone di corte, cioè un personaggio che, utilizzando una
terminologia moderna, potremmo definire un “emarginato”. La
dimensione emotiva dei protagonisti è colta da Verdi
magistralmente attraverso una partitura messa al servizio
del dramma e di straordinaria bellezza melodica. Azione e
musica sembrano rincorrersi e sostenersi mutuamente in una
vicenda che ha un ritmo di sviluppo rapido, senza cedimenti
né parti superflue.
Il miracolo si ripeté con Il trovatore (Roma, 1853), opera
dall’impianto più tradizionale, ma altrettanto affascinante.
Dramma di grande originalità perché si struttura su una
vicenda povera di avvenimenti e dove i protagonisti o sono
proiettati verso un futuro gravido di incognite, o immersi
nei ricordi di un passato lontano che ne condiziona l'azione
e che li sospinge verso un destino di morte ineluttabile.
Con quest’opera Verdi scrisse alcune fra le sue pagine più
alte, ricche di patos e suggestioni tardo-romantiche che
sarebbero nuovamente emerse pochi mesi più tardi, nella
terza opera, in ordine cronologico, della trilogia: La
traviata.
La traviata (Venezia, 1853) ruota attorno alla storia di una
cortigiana travolta dall’amore per un giovane di buona
famiglia. Più che su alcuni accadimenti esteriori, la
vicenda viene vissuta all’interno della coscienza della
protagonista la cui natura umana è scandagliata da Verdi in
tutte le sue sfumature. Le scelte stilistiche del
compositore risultano adeguate alla complessa drammaturgia
dell’opera e si traducono in un raffinamento orchestrale e
in una complessità armonica la cui modernità non venne
all’epoca pienamente recepita. Oggigiorno alcuni critici
considerano La Traviata una vera e propria pietra miliare
nella creazione del dramma borghese degli ultimi decenni
dell’Ottocento e ne evidenziano l’influenza su Puccini e gli
autori veristi suoi contemporanei .Dopo La Traviata
l’attività del compositore subì un rallentamento, cui
corrispose una ricerca sempre più ampia e meditata.
Verdi con la Trilogia aveva scardinato gli assi portanti
della tradizione lirica italiana, apportando una serie di
novità e rivoluzioni tali da segnare un punto di svolta: la
nascita di un nuovo melodramma. I concetti di tempo, spazio,
parola, melodia vengono utilizzati in modo nuovo, stravolti
e reinventati.
Di punto in bianco, con Rigoletto, il melodramma verdianosi
svincola volutamente dai modelli consueti, a cominciare
dagli argomenti che escono completamente dalla moda
librettistica del tempo. Una poetica innovativa che non
investe solo la scelta del soggetto,ma anche la sua veste
formale. A partire da Rigoletto, la drammaturgia verdiana
non è più riempita di contenuti generici: l’impostazione
degli atti, il taglio delle scene, la loro articolazione nel
tempo e nello spazio, gli argomenti e la distribuzione dei
dialoghi e dei monologhi, le forme musicali ela scelta dei
materiali discendono per deduzione dal contenuto drammatico
del soggetto, mentre i vari strati compositivi – letterario,
scenografico, drammatico, musicale – acquistano una
indipendenza così stretta che li condiziona a vicenda
econferisce all'opera una poderosa unità. Tra l’argomento e
la veste formale si stabilisce una compenetrazione assoluta:
nulla è più neppur minimamente fungibile.
L’uso che Verdi fa di alcuni elementi è emblematico per
meglio comprendere il genio del compositore. Il concetto di
tempo, ad esempio, assume un ruolo fondamentale nelle
trilogia popolare.
Sin dal Nabucco, Verdi compie una operazione sul tempo: le
lentezze, le dilatazioni, le simmetrie a distanza dei
dialoghi in musica, i lunghi interventi orchestrali tra una
battuta e l’altra, la ripetizione delle parole, in una
parola, la definizione di un tempo ideale come condizione
comunicativa a priori viene sostituita da un tempo molto più
realistico, che mira a rappresentare i ritmi della vita. Ma,
non esiste un solo modo di vivere il tempo dell’esistenza:
nella trilogia popolare Verdi scopre che la musica ha il
potere di rappresentarne diversi, e in tal senso differenzia
Rigoletto, Il trovatore e La traviata.
Rigoletto è l’opera del tempo sospeso. Dopo la comparsa di
Monterone che sbarra la cascata ritmica e sonora della festa
iniziale, tutto si svolge nell’attesa che la maledizione
faccia il suo effetto. Il tempo del Rigoletto è quello della
paura, del sospetto, del presagio, dell’incertezza; è il
tempo delle domande senza risposta, delle sorprese, dei
tuffi al cuore che spezzano la parola e che, insieme
all’idea fissa della maledizione, tormentano il
protagonista, generando situazioni sospese. Dal secondo
quadro in poi, tutta l’opera è una lunga attesa. Persino la
natura vi partecipa, con il lento addensarsi della tempesta
che si scatena, finalmente, nel momento in cui la
maledizione s’avvera. Il tempo sospeso di Rigoletto tende a
rallentare senza far cadere, anzi aumentando la tensione
drammatica (un vero miracolo di virtuosismo compositivo,
come mostrano la seconda parte di “Cortigiani, vil razza
dannata” e del Quartetto) e diventa incompatibile con le
forme su larga scala: Rigoletto è un’opera senza arie
(tranne quella, con cabaletta, del Duca) secondo la stessa
definizione di Verdi, sostituite da una serie di duetti. Le
forme adottate sono brevi, rotte, spezzate da pause o da
interventi esterni, in qualche modo aperte. Il tarlo
corrosivo è il declamato di cui Rigoletto è il portatore
principale, un declamato di tipo nuovo, che s’infiltra
ovunque a cogliere i fatti nella loro immediatezza
fenomenica.
Del tutto diverso il tempo nel Trovatore, che non è quello
empirico dei fenomeni, ma quello metafisico
dell’immaginazione. Qui non contano tanto i fatti ma le
visioni che, sorprendentemente, si avverano, cancellando la
differenza tra passato, presente e futuro, mentre la realtà
si ribalta nel sogno: “Sei tu dal ciel disceso o in ciel son
io conte?”. Per rappresentare questa regione ambigua
dell’esistenza, questo tempo fuori dal tempo, Verdi usa
forme regolari, ben articolate, compatte, dove
l’autosufficienza delle immagini interiori è espressa in
forme musicali rigorosamente chiuse, solo qua e là
sottoposte a inattesi terremoti (ad esempio nel racconto di
Azucena). Nel Trovatore il declamato è un’eccezione: la
melodia simmetrica trionfa, e quasi sempre nasconde la
parola. Il suono, non il semantema, è portatore di
significato. In questo tempo metafisico l’azione quasi non
esiste: ben poco succede nel Trovatore ma, per uno strano
ossimoro, la staticità è percorsa da una frenetica velocità
temporale, come la fiamma che sta ferma ma, nello stesso
tempo, si muove. Se Rigoletto è un’opera di fenomeni, il
Trovatore è un’opera di essenze: mai, nel melodramma
italiano, s’era avuto nulla di simile.
Il tempo della Traviata ci riporta sulla terra, ma lo
scorrere dell’esistenza è totalmente diverso rispetto a
quello di Rigoletto. Domina un’ansia precipitosa: il tempo
corre, la giovinezza sfiorisce, le notti sono troppo corte
per divertirsi appieno; e, soprattutto, c'è un il limite,
fissato dal destino, alla possibilità di amare. “É tardi!”
esclama Violetta nell’ultimo atto. Ma è sempre tardi nella
Traviata. Così, se il tempo sospeso di Rigoletto tende a
rallentare, quello ansioso della Traviata, spinto dal
perdurante ritmo di valzer, va verso l’accelerazione. Questo
conferisce alle forme chiuse della Traviata, sovente
modellate sullo schema francese dell’aria a couplets, un
dinamismo del tutto diverso dalla mobilità immobile che
caratterizza le fiamme reali e metaforiche del Trovatore.
Nella sovrabbondanza melodica della Traviata la parola non è
ostentata, come in Rigoletto, né conculcata come nel
Trovatore; nella parte di Violetta essa nutre la melodia con
i suoi accenti, le dà verità e spessore, si fa tramite di
esperienze interiori.
Verdi conferisce ai soggetti della trilogia popolare una
predisposizione speciale all’incontro con la musica. Mai più
userà, ad esempio, con la stessa efficacia lo choc allusivo
della reminiscenza, che afferma la continuità del tempo,
ripresentando a distanza i temi musicali collegati con le
idee fisse che condizionano le esistenze di Rigoletto,
Azucena e Violetta: l’idea della maledizione, quella del
fuoco e quella dell’amore redentore. Considerando il
rapporto tra la musica e l’esperienza del tempo, si capisce
perché Rigoletto, Il trovatore e La traviata si siano
imposte alla coscienza moderna come le tre incarnazioni più
tipiche del melodramma assoluto.
Nella trilogia popolare, la ricerca timbrica non si limita
più ad una funzione aneddotica e pittoresca ma crea una
dialettica scenografica che diventa parte integrante della
drammaturgia. Ogni quadro ha,così, un colore che contrasta
con quello dei quadri adiacenti e crea contrappunti a
distanza, efficacissimi per stringere l’intero dramma in una
compattezza piena di energia. Una chiara funzione
architettonica acquista, ad esempio, negli otto quadri del
Trovatore, l’alternanza, resa musicalmente, di scuro-chiaro,
notte-giorno, freddo-caldo, nero delle tenebre-rosso del
fuoco; oppure, nella Traviata, la contrapposizione dei suoni
squillanti e volutamente sfacciati che rappresentano
l’ambiente mondano dei due quadri di festa, con i delicati
pastelli di quelli privati; o ancora, in Rigoletto, il
contrasto tra il buio della notte, negli esterni del secondo
e quarto quadro, con il luccichio del palazzo ducale, negli
interni del primo e nel terzo. Sono corrispondenze così
esplicite nelle loro simmetrie che non hanno bisogno di
commento.
Alla funzione del colore, essenziale per definire l’unità
del quadro, si aggiunge anche un nuovo impiego dello spazio.
Non si tratta dei soliti effetti di voci e strumenti fuori
scena, ma di una ricostruzione musicale dello spazio inteso
come proiezione dell’interiorità. Il dispositivo
determinante è quello di rendere il primo piano indipendente
dallo sfondo. Del tutto indipendenti sono infatti, nella
festa che apre Rigoletto, il canto in primo piano e le danze
nelle sale interne. Questo genera due spazi distinti, con
uno strano effetto di vuoto intermedio prodotto dal lungo
intervento iniziale della musica fuori scena, nel silenzio
dell’orchestra. Gli spazi si moltiplicano in seguito, quando
entrano in gioco addirittura quattro fonti sonore: i
cantanti, l’orchestra che suona in modo intermittente, la
banda interna e un gruppo di archi sul palcoscenico.
La frantumazione dello spazio potenzia, in Rigoletto,
l’espressione del tempo sospeso: si veda la pantomima di
“Caro nome” con Gilda che appare in strada, sparisce dentro
la casa, riappare sulla terrazza, mentre in primo piano il
coro dei rapitori, trattenendo il respiro, ne commenta la
bellezza; oppure la stamberga di Sparafucile, vista in
sezione e divisa tra alto e basso, fuori e dentro, centro di
una frantumazione spaziale che si estende al paesaggio, con
i suoni e i rumori del vento, del tuono, dell’orologio che
segna le ore, di Gilda che batte alla porta, della canzone
del duca, tutti provenienti da punti diversi, vicini e
lontani, segno della casualità del destino che sta per
colpire gli uomini.
Nel Trovatore i casi frequenti di voci e i suoni fuori scena
hanno altre funzioni: determinano sempre una peripezia;
concretano le immagini evocate nel tempo metafisico delle
visioni; ci trasportano in una dimensione assoluta, in cui
avviene lo scontro tra principi primordiali, come quello tra
amore e morte nella scena del «Miserere» o tra sacro e
profano in quella del chiostro.
Nella prima scena della Traviata, il contrasto tra la festa
che continua nelle stanze interne, e il dramma privato che
si svolge in primo piano, rende la contrapposizione tra
Violetta e l’ambiente da cui lei si staccherà, ritrovando se
stessa. Per non dire dello straordinario effetto
determinato, alla fine del primo atto, dal canto fuori scena
di Alfredo, così ricco di valenze psicologiche, spaziali,
semiotiche, memoriali che sarebbe qui troppo lungo
illustrare e che danno a quel canto una forza impressiva
adeguata al contenuto che deve rappresentare. La funzione
espressiva ottenuta attraverso l’articolazione sonora dello
spazio non si esaurisce, infatti, nel singolo quadro ma
finisce per riverberarsi su tutta l’opera: essa, infatti,
non solo esalta contenuti specifici, ma presta una
dimensione fisica alla durata interiore.
L’ unità dei singoli quadri, fissata nel tempo, nel colore e
nello spazio, poggia sul principio dialettico del contrasto
che, sin dall’inizio, caratterizza il teatro di Verdi. La
sua opera può essere definita come “arte del contrasto”.
Anche sotto questo aspetto Rigoletto, Il trovatore e La
traviata presentano un salto di qualità: le violente
contrapposizioni di situazioni, forme, stili, melodie,
ritmi, timbri, tonalità che nelle prime opere miravano a
scaricare sullo spettatore una serie di choc ad effetto, dal
Rigoletto in poi diventano una funzione organica della
drammaturgia musicale; e se prima i contrasti tendevano a
disarticolare la struttura, ora si attraggono come poli
opposti, generando energia e compattezza. Cosi, tutto
diventa naturale, a cominciare dalla costruzione della
melodia, asse portante del melodramma di Verdi. A partire,
da Rigoletto, la fusione dei vari stili melodici, la ricerca
dell’accostamento che genera energia diventano così naturali
che le melodie appaiono semplici, immediate, fortemente
orecchiabili, pur nascondendo una realizzazione complessa:
l’irregolarità fraseologica diventa un raffinato elemento,
la varietà del vocabolario è assortita con tale souplesse
che l’ascoltatore se ne accorge, a posteriori, solo leggendo
lo spartito. Inoltre, nella trilogia popolare la melodia
diventa così sovrabbondante da superare gli argini della
forma chiusa, tracimando nel recitativo, sino a inzuppare
intimamente la prosodia, i ritmi, gliaccenti della parola.
Per diventare espressivo, il recitativo non ha più bisogno
di trasformarsi in arioso, come avveniva di solito, ma può
mantenere tutta la sua plasticità declamatoria, e nello
stesso tempo farsi “cantabile”, come se le frasi fossero
“montate” attraverso frammenti di arie destrutturate. Il
metodo è nuovo e trascina con sé importanti conseguenze.
Ogni nota di quello che era il vecchio recitativo acquista
importanza, e la compenetrazione di musica e parola diventa
così stretta che Verdi ordina di eseguire senza le solite
appoggiature, cioè esattamente come è scritto, il
formidabile declamato che precede e invade il terzetto
nell’ultimo atto di Rigoletto: le frasi, infatti, non
traggono più la loro giustificazione dal testo verbale ma
dalla interna coerenza melodica degli intervalli.
Essendo divenuto così pregnante, il recitativo può
concedersi anche una notevole estensione: la furiosa e
schematica brevità, imposta a Piave nel Macbeth, ora non è
più così necessaria, a tutto vantaggio dell’azione. Altri
esempi di declamato sottratto agli stereotipi delle cadenze
tradizionali, troviamo as esempio in Traviata, nella lunga
scena introduttiva all’inizio del terzo atto.
Infine, nel momento in cui il recitativo acquista spessore e
organicità, cade la discontinuità che da sempre aveva
regolato la drammaturgia dell’opera italiana, con
l’alternanza di materiale interstiziale neutro e blocchi
musicali significanti, comprensione ed espressione, divenire
ed essere. Anche i dialoghi posseggono ora musica pregnante.
Ne consegue una rivoluzione dell’ascolto, che non conosce
più il vecchio movimento a fisarmonica di rilassamento e
tensione, distrazione e attenzione. Nella rappresentazione
della verità tutto è in continua tensione: il che non
significa sovreccitazione permanente, bensì recitazione
“shakespeariana”, intensa, misurata e vera, come indicano le
abbondantissime prescrizioni di “piano” e “pianissimo” che
costellano le tre partiture.
In tal modo Verdi tronca ogni legame con l’ antica
concezione ludica del melodramma fondata sul continuo
pendolare tra il tempo, musicalmente vuoto, del recitativo,
e quello assoluto del pezzo musicale: se il gioco è presente
nelle opere di Verdi, esso è ora inteso come condizione
esistenziale, non più come forma della rappresentazione.
Così, il tradizionale melodramma italiano, sovraccaricato di
responsabilità espressive, finisce per crollare sotto il
proprio peso.
Il teatro musicale è veramente riplasmato, ricreato dalle
sue fondamenta, e completamente conquistato alle istanze di
verità che, come visto, caratterizzano l’arte romantica.
Luciana Distante
..::
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