024..:: 20.07.2013
Nella foto, la soprano, Luciana Distante.
Proseguiamo questo «percorso musicale» a
cura di Luciana Distante, soprano. E' una iniziativa
dell'Assodolab riservata a coloro che amano la "buona
musica" e gli "autori del passato" che ci accompagnerà per tutto l'anno 2013 su
queste pagine web del nostro Supplemento di informazione
on-line
www.lasestaprovinciapugliese.it
La prossima uscita sarà il prossimo sabato.
La Redazione
Prof. Agostino Del Buono
Regione Puglia, LECCE..:: La complessità dei
protagonisti femminili diviene sempre più forte nel percorso
artistico di Giuseppe Verdi e l’opera Il trovatore (1853)
non fa eccezione.
Il primo atto si apre nell’atrio del palazzo dell’Aliaferia,
dimora del conte di Luna, dove Ferrando, il capitano delle
guardie, raccomanda ai soldati di fare buona guardia mentre
attendono il rientro del conte dal palazzo della sua amata
Leonora. Il conte teme un coinvolgimento sentimentale della
giovane per un misterioso trovatore che, di notte, le dedica
serenate. Ferrando narra anche ai suoi uomini la storia del
fratello minore del conte, Garzia, che, venti anni prima,
venne stregato da una vecchia zingara poi condannata al
rogo. Per vendetta, la figlia della gitana, rapì il piccolo
Garzia e lo fece ardere sullo stesso rogo. Il padre, non
convinto della morte del figlio, impiega tutte le sue forze
nella ricerca e, in punto di morte, fa promettere all’altro
suo figlio di non rinunciare alla speranza e di continuare
le indagini, ma finora tutto è stato vano. Nella scena
seguente, Leonora, dama di compagnia della principessa
d’Aragona, nei giardini del castello racconta alla fedele
dama di compagnia Ines di un cavaliere che non è più
riuscita a dimenticare. Incontratolo durante un torneo non
lo ha più veduto a causa dei disordini che si susseguivano
per la guerra civile scoppiata tra il Conte di Luna e il
Conte di Urgel. Ma una notte, dopo aver ascoltato cantare
sotto le sue finestre un trovatore, riconosce il lui il suo
cavaliere. La principessa è appena rientrata nel palazzo
quando le giunge di lontano il canto del trovatore Manrico.
Non visto è presente anche il Conte di Luna. La giovane
corre incontro al suo amato ma, a causa dell’oscurità,
scambia il Conte di Luna per Manrico. Il Conte, innamorato
di lei, è venuto per chiederle un pegno d’amore, ma adesso,
ingelosito, sfida a duello il rivale, seguace del ribelle
Conte di Urgel.
Nel secondo atto, Manrico si trova nell’accampamento degli
zingari sulle montagne di Biscaglia. Ha vinto il duello ma è
rimasto ferito. La zingara Azucena gli racconta del
supplizio della madre e la sua supplica di vendetta. Allora
ella, per rivalsa, e per realizzare il desiderio della madre
morente, rapì Garzia, ma, disse, arse per errore il proprio
figlio credendo di bruciare il figlio del Conte. Manrico,
stupito e turbato, vuol sapere se è proprio lei, Azucena,
sua madre. La gitana amorevolmente lo rassicura
rammentandogli le sue cure di madre fin da quando era in
tenera età. Piuttosto, gli chiede, perché abbia avuto pietà
del Conte risparmiandogli la vita. "O madre!... non saprei
dirlo a me stesso! (...) un grido vien dal cielo, che mi
dice: Non ferir!".
Giunge un messo ad annunciare che Castellor è stata
conquistata dalle truppe di Urgel ed è richiesta la presenza
del giovane e che Leonora, credendolo perito, sta per
prendere i voti. Manrico parte per raggiungerla nonostante
le insistenze della madre. Il Conte, nel frattempo, si
apposta nei pressi del convento di Castellor per rapire
Leonora, ma, quando sta per agire, sopraggiunge Manrico che
riesce a sventare il tentativo di rapimento e la porta in
salvo.
Nel terzo atto, i due giovani e il drappello armato di
seguaci si sono rifugiati a Castellor, assediato dal Conte
di Luna. Azucena, aggirandosi nell’accampamento, creduta una
spia, viene fatta prigioniera. Mentre il Conte la interroga,
Ferrando riconosce in lei la rapitrice di Garzia: viene
quindi condannata al rogo. Leonora e Manrico stanno per
sposarsi nella cappella del castello quando un soldato viene
ad annunciare che Azucena, prigioniera del Conte, sta per
essere arsa viva. Manrico non può permettere che sua madre
venga uccisa e parte per liberarla.
Nell’ultimo atto, Manrico, fatto prigioniero dopo il
tentativo di liberare Azucena, è chiuso nella torre dell’Aliaferia.
Il Conte ha ordinato che venga decapitato all’alba insieme
ai suoi compagni, ma Leonora gli si promette a patto che
risparmi la vita a Manrico e a sua madre. Quindi, per non
soggiacere al ricatto, si avvelena bevendo il veleno dal suo
anello. Nel carcere in cui è stato rinchiuso con Azucena,
Manrico tenta di confortare la zingara, in preda a
drammatiche visioni, assicurandole che presto torneranno al
loro accampamento. Addormentatasi la zingara, Leonora
sopraggiunge ad annunciare loro la liberazione. Manrico
però, intuito il prezzo della libertà, rifiuta di accettare.
Il veleno agisce sulla giovane che muore tra le braccia
dell’amato. Il Conte di Luna, che ha assistito, non visto,
alla scena, accecato dalla gelosia, ordina che Manrico venga
immediatamente messo a morte, e costringe la madre ad
assistere alla cruenta scena. A sentenza eseguita, Azucena
gli griderà che il giovane appena ucciso era in realtà
Garzia, suo fratello: la vendetta della gitana è finalmente
compiuta.
La critica musicale ha sempre ribadito per Trovatore la
centralità ed il carattere innovativo della zingara Azucena,
dominatrice dell’azione ed ispiratrice burattinaia degli
altri personaggi, con il suo ricordare angosciato e
terribile, con i suoi segreti, con la sua tenerezza un pò
rude, con la sue personalità dai risvolti demoniaci ed
inquietanti. Il personaggio dalla vocalità, perciò, più
variegata e fantasiosa per i continui cambi di umore che la
connotano e su cui Verdi avrebbe voluto incardinare l’opera,
ma alla quale finì per contrapporre Leonora, una delle
creature più astratte, irreali ed eleganti di tutta la sua
produzione. Una donna stilnovista quasi, incarnazione
dell’ideale, dell’amore come della bellezza, che si scuote
improvvisamente al quarto atto, dopo la grande aria, con il
tragico canto del “Miserere” e del duetto con il Conte, per
poi morire ancora completamente staccata dalla realtà, come
una eroina da fiaba.
Il ruolo di Leonora è uno dei modelli del cosiddetto soprano
drammatico d’agilità, ossia dalla vocalità estesissima in
acuto e nei gravi ( frequenti le frasi scritte sotto il
rigo, talora anche accentate, come “M’avrai, ma fredda
esanime spoglia”), capace di unire canto strumentale ed
espressività tragica, grande ampiezza di fraseggio in certi
passi spianati ed agilità, sia di grazia che di forza. Per
il soprano, le maggiori difficoltà risultano concentrate in
passaggi ben precisi e limitati, data la ben nota concisione
verdiana. L’astrazione psicologica che caratterizza il
personaggio, a meno del concitato risveglio del IV atto nel
già citato "Miserere" e nella successiva scena con il Conte,
ha pari ascendenza belcantistica quanto la scrittura vocale,
che non rinuncia a grandi arie melodiche, cabalette dense di
fiorettature abbastanza ostiche, oppure grandi passaggi
aerei, come quello della scena del convento, “Sei tu dal
ciel disceso” (dal re bem centrale sale sino al la bem e al
si bem acuti, da cantare "con espansione e slancio" ), le
ampie salite del “D’amor sull’ali rosee” ( la cui scrittura
acutissima, con gli ampi passaggi finali che salgono al do e
quindi al re bem viene solitamente omessa a favore dell’
“oppure” che limita il passaggio alle salite si bem-do,
mentre la cadenza conclusiva viene o omessa o rielaborata
sopratutto nella seconda parte .
Lo chiamano “sacro fuoco verdiano” quello che anima Leonora
nell’implorazione al Conte, “Mira d’acerbe lacrime..”, dove
Verdi la fa salire con una messa di voce sino al si bem
acuto in “..ma salva il trovator” e la successiva stretta,
“allegro brillante molto vivace”, dai suoi ritmi puntati
“Vivrà….contende il giubilo…”, momento trascinante ove si
esprime forse la massima esagitazione del personaggio .
Quanto al lato virtuosistico, la tradizione esecutiva
instaurò presto il taglio della cabaletta del IV atto, “Tu
vedrai che amore in terra”, elisa da Verdi stesso già per la
versione parigina del 1857, perché si rivelò da subito di
difficile esecuzione per quasi tutte le interpreti.
Altrettanto precocemente si instaurò la pratica, da parte di
alcuni soprani particolarmente estesi e capaci, di inserire
nel "Miserere" delle puntature al re bem acuto, pratica
ascritta con certezza al soprano Therese Tjethiens. Come già
per molti altri ruoli tragici del belcanto o del tardo
belcanto italiano, anche Leonora divenne appannaggio di due
tipi di soprano diversi, quelli drammatici in senso stretto,
di voce importante e fraseggio aulico, oppure di grandi
belcantiste, voci anche dal peso più lirico, in grado di
amministrare il personaggio in chiave più strumentale.
Salvo eccezioni rare, come Arangi Lombardi o Russ, agli
inizi del XX secolo ebbe luogo la sparizione della
componente belcantista di questo ruolo. Il soprano
drammatico o spinto approcciava Leonora in forza di una voce
importante, di un accento scandito, più o meno elegantemente
amministrato, allontanando la concezione del personaggio
dalla sua matrice di primo ottocento. La qualità esecutiva
della fiorettatura, complice il taglio della cabaletta del
IV atto, risultò meno importante rispetto alla componente
drammatica del personaggio che, ovviamente, perse parte
della sua astrazione psicologica. Le grandi interpreti
moderne, a cominciare da Maria Callas e Joan Sutherland,
hanno spinto per una restituzione del ruolo nella sua
originaria e più completa forma.
Luciana Distante
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