L'Opera italiana con Giuseppe Verdi. | |||||
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082 ..:: 28.11.2022
..:: Nabucco, dramma lirico in quattro atti di Giuseppe Verdi. Il Libretto di Temistocle Solera, pubblicato da Edizioni Ricordi.
TRINITAPOLI ..:: Giuseppe Verdi è
stato uno dei più grandi compositori del nostro paese, nel
quale ha anche ricoperto incarichi politici in qualità di
senatore. In buona parte, nelle sue opere si notava una
forte simbiosi tra musica e politica, in quanto queste
presentavano elementi romantici che proponevano agli
spettatori una chiave di lettura patriottica. Le sue opere
rappresentano la musica italiana in tutto il mondo. Giuseppe
Verdi nato a Roncole di Busseto il 10 ottobre 1813, dopo i
primi studi musicali iniziò la attività compositiva con
musiche sacre, vocali e strumentali, per le funzioni
religiose del luogo, e soprattutto numerosi pezzi per la
società filarmonica di Busseto, tutte musiche delle quali
non è rimasta traccia. La sua prima vera opera fu «Oberto,
conte di San Bonifacio» (1839). I complimenti ottenuti,
spingono l’impresario Merelli a commissionare una nuova
opera buffa all’esordiente musicista. In realtà «Un giorno
di regno, ossia il finto Stanislao», vuoi per la non
naturale inclinazione al genere comico e vuoi per i lutti
(morte di due figli e della moglie) è un insuccesso. Il
dolore intimo per la sorte avversa, la rabbia sopita per il
bruciante recente smacco, la lunga inoperosità, crearono
quella simbiosi tra energia e aggressività che portò alla
nascita di «Nabucodonosor» (questo il titolo originario
mutato due anni dopo in «Nabucco»). Fu un entusiastico
successo senza precedenti. L a trama, divisa in quattro
parti, narra della sottomissione del popolo d’Israele alle
orde babilonesi di Nabucco e della liberazione degli ebrei
ad opera dello stesso tiranno dopo la sua conversione al Dio
d’Israele. «Nabucco» dà la dimensione del genio verdiano. Là
dove si presentano solo nomi, scarne situazioni, aride
vicende, interviene l’ingegno che con intuito genera
l’elemento drammatico: carattere nei personaggi e tensione
negli avvenimenti, contrasti ed emozioni, tutte realtà che
scaturiscono dalla musica, costruite dalla musica, con uno
stile che assume aspetti originali. Fra i risvolti del
dramma di Nabucco, si nasconde il lamento del popolo ebreo
“Va pensiero, sull’ali dorate”: non c’è nulla che possa far
pensare a una volontà determinata, nel Solera o nello stesso
Verdi, a creare un’analogia politica tra schiavitù del
popolo ebraico e quella del popolo italiano; se quel coro
divenne un veicolo incendiario, così come altri lo sarebbero
diventati in seguito, lo si deve a fattori imponderabili,
forse spiegabili solo con una certa maturità politica dei
tempi. Il Nabucco è dramma di masse e di popolo, e
altrettanto si può ripetere per I Lombardi alla prima
crociata, dove l’altro appassionato coro “oh, Signor che dal
tetto natio”, pur lontano dal lirismo del primo, ebbe la
forza di esaltare con veemenza chi ne fu spettatore. La fama
oltre i confini nazionali viene a Verdi da Ernani; la
commissione gli venne da Venezia per il teatro La Fenice da
parte del suo presidente, il quale posta al compositore il
librettista e il soggetto da mettere in musica: Francesco
Maria Piave e il «Cromwell» di Victor Hugo. Verdi accetta,
ma a un certo punto tenta di cambiar direzione; scrive
infatti in una lettera al conte Mocenigo che il «Cromwell»
non era di grande interesse considerando le esigenze del
teatro. Fu assecondato, e certo è che anche se la musica non
si snoda in Ernani sempre sulla stessa corda drammatica,
l’opera risulta più stringata e incisiva di quanto non gli
sia accaduto in precedenza. Seguirono I due Foscari e la
Giovanna d’Arco. Dopo Attila, opera fondata sulla violenza,
priva di quegli elementi melodici che caratterizzano la
penna del musicista, viene il suo primo approccio con
Shakespeare: è «Macbeth». In questa opera, Verdi profonde un
impegno eccezionale e un’inusuale cura per i più piccoli
particolari. Tra l’acquisto a Busseto del palazzo Dordoni e
quello della tenuta di S. Agata, compone per Londra «I
Masnadieri», dove alla potenza drammatica di Schiller si
risponde con una partitura anemica. Altra opera con
risultati negativi fin dal suo apparire è «Il Corsaro». Su
una strada diversa sembra invece camminare Luisa Miller,
aperta da una vigorosa pagina sinfonica del più bel fuoco
verdiano e chiusa da un atto fra i più ammirevoli di quelli
scritti finora. E’ di quest’epoca il sogno di Verdi, mai
realizzato, di mettere in musica il Re Lear di Shakespeare.
Vien fuori invece «Stiffelio», altra esperienza a ricerca
intimistica poco riuscita, ma che prelude come «Luisa
Miller» alla cosiddetta trilogia popolare romantica. La musa
fa vibrare ben altre corde, e dà corpo alle più
caratteristiche opere nello stile verdiano, a cominciare da
«Rigoletto». Fra le avventurose vicende di un libertino
emerge l’umanità di un padre cui è stata sedotta la figlia.
Su tutto incombe un destino maledetto, e Verdi scava nei
sentimenti di un gobbo “esternamente difforme e ridicolo,
internamente appassionato e pieno d’amore”: ha una figlia
rapita, disonorata, e la vendetta che programma si ritorce
contro di lui. L’arte in Rigoletto sta non solo nella
commozione che anima le frasi melodiche, o negli elementi
musicali che vivificano ogni situazione del dramma, ma anche
per aver fatto sbalzare la sfaccettatura dei personaggi
hughiani, realizzati nel melodramma come non si presentano
in «Le Roi s’amuse». Inoltre Verdi amalgama maggiormente le
singole sezioni e rende il tutto unitario per la continuità
della espressione drammatica musicale, con un arco che
riesce quasi ad annullare la naturale separazione fra parte
e parte dovuta alla sempre presente struttura delle forme
chiuse. Gli squilibri e le fratture individuabili fino alla
«Luisa Miller» tra i diversi momenti che costituiscono
l’opera sono pressoché scomparsi. L’impeto delle passioni,
la vigorosa energia, la fuga drammatica presenti nel
«Trovatore» sono allo stato grezzo, migliore riflesso della
personalità rude e aggressiva di Verdi. Il Trovatore è
ancora un dramma della vendetta, questa volta torbido, fatto
di orrore. La crudele zingara Azucena aveva gettato sul
rogo, per vendicare la madre, un bambino che credeva il
figlio rapito al vecchio conte di Luna, e invece era il
proprio: è l’antefatto che spinge Verdi a muovere con
immediate tinte forti. Il bimbo rapito è cresciuto con la
spietata donna, è divenuto il trovatore Manrico. I
personaggi sono sbalzati a tinte ancor più marcate, tra la
durezza ferrigna e i bagliori selvaggi di sentimenti umani
crudi e primitivi. Due mesi dopo il trionfo romano del
«Trovatore», viene il crollo veneziano della «Traviata». E’
un dramma dell’amore attuale dei nostri giorni. La fama
internazionale lo chiama a Pietroburgo, al teatro Imperiale
con «La Forza del Destino», che rimaneggerà sette anni più
tardi aggiungendovi quella che è notoriamente considerata la
sua più trascinante sinfonia d’apertura. Vengono gli anni
delle gelosie professionali come quelle che causarono la
rottura con l’amico Angelo Mariani, uno dei primi direttori
d’orchestra verdiani; vengono gli anni degli attacchi da
parte dei filo-tedeschi, con in testa i giovani musicisti
della “scapigliatura milanese”, fra i quali Arrigo Boito che
esorta la cultura italiani a staccarsi dal “vecchio”, viene
anche la conoscenza della musica di Wagner. In questo
contesto venne «Aida», un’opera spettacolare ma piuttosto
carente per quanto riguarda la levatura drammatica dei
personaggi. Pur con tutti i suoi difetti, Aida avvince in
quanto costruita con ampi fiumi di musica. La maturità
dell’artista, sollecitata ormai da ben altre esigenze,
comincia a spingere Verdi verso altre mete. Occorreva la
collaborazione di un letterato e poeta valente; Arrigo
Boito, poeta, musicista e autore di melodrammi, era
senz’altro la persona più adatta e per giungere al connubio
Verdi – Boito ci volle tutta l’arte e l’abilità di chi era
loro vicino in quanto come si è detto tra i due non scorreva
buon sangue. Verdi compone dunque due capolavori con i quali
corona la propria esistenza di drammaturgo: «Otello e
Falstaff». Nascono due partiture che si distaccano da tutte
le precedenti, la prima per la più grande opera tragica
dell’ottocento, la seconda per la più ricca di elementi
strumentali. Le parti orchestrali sono incanalate in altre
pagine sinfoniche, rese attraverso una superba ricercatezza
della strumentazione che è sempre dosata secondo quel che
richiede ciascun momento e ciascuna situazione, e con la
elaborazione dei contrappunti portata avanti in sviluppi di
volta in volta più complessi. Gli equilibri fra voci e
strumenti, i loro intrecci, le loro alternanze, le loro
fusioni, sono conseguiti con tecniche alle quali non si era
avvezzi: armonie e melodie elevano due monumenti. Non è
tutta qui l’attività verdiana. Si contano 23 liriche per
canto e pianoforte, composizioni religiose, lo «Stabat
Mater» per coro e orchestra, l’«Ave Maria», un «Pater noster»,
le «Laudi alla Vergine» e infine il «Requiem». Il Requiem
verdiano, potente testimonianza del carattere umano, è grido
che sfugge dalle bocche dei vivi dinnanzi alla morte, non
mesto pianto intonato dai vivi sui defunti. E ad agire fu
ancora il drammaturgo.
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